In piazza la generazione Z: «Ci colpivano senza pietà»
Le voci dei manifestanti sotto il fuoco dei soldati. «La nostra unica speranza è Aung San Suu Kyi»
Sabato sera, un giorno prima di restare ucciso, colpito da un proiettile alla testa, Nyi Nyi Aung Htet Naing, giovane ingegnere informatico, ha postato sulla sua pagina Facebook una frase che è diventata il suo tragico epitaffio: «Quanti altri cadaveri sono necessari prima che l’Onu faccia qualcosa?». Lui pensava al prezzo per la libertà, senza immaginare che l’indomani sarebbe stato lui tra i primi a pagarlo.
Le voci dai cortei che ieri hanno affrontato la brutalità di poliziotti e soldati birmani raccontano di una giornata di guerra asimmetrica, peraltro denunciata di fronte al mondo dall’ambasciatore (poi rimosso) del Myanmar presso le Nazioni Unite, Kyaw Moe Tun: il golpe è «inaccettabile nel mondo moderno». La comunità internazionale deve usare «ogni mezzo necessario» per indurre i militari a «restituire il potere al popolo». La risposta nelle strade è stata immediata e sanguinosa. «Il Paese è un campo di battaglia», ha detto il primo cardinale cattolico birmano, Charles Maung Bo. Ma non tutti pensavano davvero che potesse succedere quello che è successo. «La polizia si è avvicinata a noi e ci ha puntato contro i fucili — ha raccontato Ye Swan Htet, 23 anni all’agenzia Reuters —. Nessuno pensava che avrebbero sparato: stavamo soltanto cantando e battendo le mani. Poi sono cominciati i colpi». E il cugino di Ye è caduto in una pozza di sangue, ucciso all’istante.
«Sparano ai civili, senza pietà — ha raccontato invece un infermiere in servizio con un’ambulanza per soccorrere i feriti —. Agiscono come terroristi, altro che polizia. È pura crudeltà». Un’insegnante di Yangon ha spiegato che domenica, svegliandosi, aveva trovato il cellulare colmo di messaggi dei suoi allievi, con saluti molto simili ad addii: «A un certo punto mi è arrivato un sms da uno studente che scriveva mentre cercava di ripararsi dai colpi della polizia. “Grazie di tutto”, mi ha scritto. “Grazie per il sostegno in questi anni. Noi tutti le vogliamo bene, professoressa”». Questa Generazione Z, non meno coraggiosa delle precedenti che hanno sfidato i generali, certamente più al passo con i tempi grazie a Internet, condivide comunque un’identica fede con i propri genitori: Aung San Suu Kyi. Un cartello, eretto su una barricata, oltre al volto della Signora, agli arresti da un mese, portava la scritta: «Lei è la nostra unica speranza».