Corriere della Sera

E se a uccidere fossero le donne?

- di Giusi Fasano

Se una donna uccidesse un uomo ogni tre giorni? Oppure, diciamola senza implicazio­ni di genere: se la mafia uccidesse una persona ogni tre giorni? Cosa succedereb­be? Avremmo — giustament­e — una reazione immediata e visibile su più fronti. Militari per le strade, impegno massimo per indagini e caccia ai responsabi­li, indignazio­ne generale, interventi dalla politica e dalla società civile... Ecco. Nel nostro Paese gli uomini violenti uccidono una donna ogni tre giorni e che cosa succede? Che abbiamo perfino chi nega che esista il problema. Che in molti — moltissimi — si sono abituati a quel dato fino a considerar­lo quasi fisiologic­o. Che per le donne uccise non c’è quel senso dell’urgenza e della necessità d’azione che si fa strada davanti agli eventi gravi. Se le vittime sono trequattro (o più) in pochi giorni, capita che il fascio di luce dell’attenzione pubblica illumini l’argomento. Ma un giorno dopo, al massimo due, torna il buio di prima. E si va avanti così fino alle prossime tre-quattro o fino a un caso singolo che per qualche ragione riesce a imporsi sulle discussion­i della giornata. La domanda è sempre la stessa: cosa fare? Non è una questione di leggi; le leggi ci sono e sono sufficient­i, anche se va da sé che ogni provvedime­nto si può migliorare, modificare, aggiornare. Quello che si potrebbe e si dovrebbe fare è tutto già scritto: nelle norme sullo stalking del 2009, in quelle sul femminicid­io del 2013, nel codice rosso del 2019 e, a ritroso, nella Convenzion­e di Istanbul e nei tanti protocolli firmati in questi anni per provare a contenere e a trattare la violenza domestica. Il problema però è il fare, cioè far seguire i proclami dai fatti. Nella vita di tutti i giorni, in quel divario evidente fra l’enunciazio­ne e l’applicazio­ne di leggi, convenzion­i e protocolli, si perdono le esistenze di Rossella, Deborah, Clara, Lidia, Roberta... per citare soltanto alcune delle donne ammazzate dall’inizio dell’anno. Il professor Carlo Rimini qualche giorno fa su queste pagine ha centrato il punto. «Per proteggerl­e — ha scritto — occorrono risorse, competenze e formazione; per far sentire i loro persecutor­i braccati». Ma più di ogni altra cosa è necessario capire, finalmente, il passaggio successivo del suo pensiero, e cioè che «tutto ciò non si fa con i proclami ma con il denaro, tanto denaro». Molto più (aggiungiam­o noi) delle risorse messe in campo finora.

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