Il manager dei troppi incarichi Quegli errori da ribalta e le accuse ai big farmaceutici
Dall’ex premier Conte ha accettato ogni ruolo Il rapporto con la Protezione civile. Ora torna a Invitalia
Il rapporto fra Domenico Arcuri e Giuseppe Conte finirà nei manuali di politica come esempio di ciò a cui porta la scaltrezza e l’accecamento del potere sullo sfondo di istituzioni deboli. Gli equivoci, gli errori, gli scaricabarile e persino ciò che ha funzionato: niente nella vicenda del manager che fu commissario si comprende senza inserire nell’equazione la psicologia dei protagonisti e il contesto del Paese. La cui debolezza, del resto, è conclamata.
Quando un anno fa esplode Covid-19, la Protezione civile può contare su un patrimonio di conoscenza nel gestire le sciagure che conosce: terremoti, inondazioni, cedimenti idrogeologici. Non una pandemia, allora fuori dai radar della struttura. Succede così che nei magazzini della Protezione civile manchino persino le mascherine, e poco importa se nel mondo in questi anni le aggressioni virali si sono susseguite: Sars, suina, aviaria, Ebola. Ci si poteva pensare, non lo si è fatto.
Arcuri entra in scena allora. A metà marzo 2020 Conte, a capo del suo secondo governo, nomina questo manager da sempre vicino alla tradizione del Pd per riempire i vuoti nella cintura di trasmissione dalla politica alla burocrazia. Arcuri è di Melito di Porto Salvo, 57 anni, formato dalla scuola militare della Nunziatella prima di una carriera nell’Iri, quindi a Deloitte, infine di nuovo nell’impresa pubblica con Invitalia. A lui Conte chiede di fare il «commissario straordinario» per «l’attuazione e il coordinamento» di tutto ciò che è urgente fare — soprattutto, reperire — contro Covid. E beato quel popolo che non ha bisogno di commissari. Perché Arcuri è lì per saltare le labirintiche procedure dello Stato, procurarsi al più presto mascherine o respiratori e organizzarne una produzione nazionale. Via via, accadrà lo stesso con tutto ciò che viene chiesto: dai banchi a rotelle alle siringhe, alla gestione dei vaccini forniti da Pfizer, Moderna e AstraZeneca. Per questi ultimi deve anche organizzare una strategia di consegne ed è qui che la frustrazione collettiva diventa massima. Anche la sua, riferisce chi gli ha parlato in queste ore. In base ai piani europei, entro marzo l’Italia avrebbe dovuto ricevere 28,2 milioni di dosi. Invece ne ha due milioni a gennaio, 4,5 a febbraio e spera — senza certezze — in altri sei milioni di fiale questo mese: meno della metà del previsto.
Lui in ogni caso accetta da Conte qualunque incarico e lo fa con un piglio che non denota mai umiltà. Il premier dunque gli affida di tutto, sempre di più. Sembra non fidarsi di nessun altro, quasi che l’Italia non avesse altro talento se non Arcuri. Si instaura così un rapporto ambivalente tra il capo (pugliese) nel suo bunker e il fedelissimo (calabrese) in battaglia. Un legame al limite del cortocircuito istituzionale, anche perché l’intera Protezione civile entra in un cono d’ombra e silenziosamente ribolle. Arcuri intanto scopre che le luci della ribalta non gli sono sgradite, anzi. Crede in se stesso e non si tira mai indietro mai.
Così il gioco, per Conte, è fatto. Rendendo Arcuri il dominus dell’emergenza, il premier ne fa anche il parafulmine per qualunque cosa vada storta. Uno scudo umano per Palazzo Chigi. Del resto lo stesso Arcuri non sembra avvedersi del calice avvelenato che il premier gli sta porgendo o forse sono l’ambizione e la sicurezza di sé a fargli fingere di non vedere il carattere ambiguo del patto con il premier. Lui lui stesso finirà per generare — o non smentire — l’impressione di avere poteri che non ha. In realtà ha un compito importante, ma delimitato: deve comprare prodotti per lo Stato, e distribuirli. In molti però iniziano a pensare che sia lui a gestire la pandemia. Dunque se qualche farmacista specula sulle mascherine in primavera o se le scuole chiudono in autunno, diventa colpa sua. E Conte sfida la gravità nei sondaggi.
Certo, di errori Arcuri ne commette eccome. Come documenta il Corriere il 31 gennaio, in settembre fa comprare per cento milioni di euro mascherine a prezzi elevati da un’impresa a controllo cinese incorporata in Olanda. E una lista di aziende fornitrici di macchinari da terapia intensiva viene pubblicata, con ritardo, solo in novembre. Nel complesso però è difficile sostenere che la performance dell’Italia nel procurarsi i beni necessari all’emergenza sia peggiore rispetto al resto d’Europa. E l’equivoco contiano funziona, senza che Arcuri lo sveli. Così se le scuole restano chiuse, in molti dicono che è colpa dei «banchi a rotelle» del commissario (che ha solo comprato su richiesta). Non - come è il caso in realtà - degli enti locali che rifiutano di affittare i bus privati per non farli entrare nel mercato delle imprese da loro controllate o per la resistenza dei sindacati della scuola agli orari scaglionati. E se ancora in tanti restano oggi senza vaccino, diventa facile dire che è colpa delle «primule» (una costosa trovata di Arcuri, questa sì, di cui si sarebbe fatto facilmente a meno). E non del solito consociativismo italiano che porta a distribuire le poche dosi disponibili fra ordini professionali, amici degli amici e varie categorie non esposte, mentre milioni di anziani aspettano. Toccava al governo e alle regioni vigilare, ma non è stato fatto. Prima di lasciare il commissario ha condiviso un piano che prevede la mobilitazione per i vaccini di almeno 20 mila medici di base, con aumento della capacità di somministrazione a 350 mila dosi al giorno entro giugno e a mezzo milione a settembre. Ma molto meglio una bella polemica sulle «primule». Del resto è Arcuri che ha scelto di danzare al ritmo di Conte. E con Conte, alla fine, è inciampato.