I 90 anni di Gorbaciov, gli auguri freddi di Putin «Un pezzo di storia, gli dobbiamo rispetto» Dalla fine dell’Urss a un ospedale anti-Covid
Mikhail Sergeyevich festeggerà oggi con grande austerità il suo novantesimo compleanno nell’ospedale moscovita dove i medici lo tengono da quasi un anno per proteggerlo dal Covid. D’altra parte, anche se è contento per i tantissimi auguri ricevuti (compresi quelli del nostro Mattarella e di Andrea Bocelli che gli ha inviato un video in cui canta Happy Birthday), Gorbaciov ha ben poca voglia di celebrare alcunché da quando ventidue anni fa la moglie Raisa lo ha lasciato. Una donna che, soprattutto all’estero, era popolare almeno quanto il padre della Perestrojka, il processo di ristrutturazione che avrebbe dovuto salvare la boccheggiante Unione Sovietica alla fine degli anni Ottanta.
Dopo essere finito nel dimenticatoio russo durante tutto il periodo in cui è stato al potere il suo arci-rivale Boris
Eltsin, Gorbaciov è riemerso sulla scena pubblica con l’arrivo al Cremlino di Vladimir Putin, un presidente che all’inizio lui ha appoggiato apertamente. Poi l’ultimo segretario generale del Partito comunista sovietico ha preso le distanze dal nuovo zar. Per riavvicinarsi nuovamente negli ultimi tempi, sia pure con molta cautela. E oggi Putin si farà sentire, anche se il suo portavoce parlando con i giornalisti ha semplicemente detto che al Cremlino si ritiene che «Gorbaciov sia parte della storia, con grande rispetto». Niente di più.
D’altronde, nel suo Paese il più giovane leader sovietico dai tempi di Stalin è stato prima amato svisceratamente e poi odiato ferocemente. Quando decise di presentarsi alle elezioni presidenziali nel 1996 seguendo consigli sbagliati, il risultato fu disastroso. Non ottenne più dello 0,5 per cento dei voti. Negli anni più duri del post-comunismo, la gente imputava a lui la disintegrazione del Paese, la povertà, la perdita del prestigio internazionale, il collasso dell’apparato produttivo.
Fu facile per i sovietici apprezzarlo all’inizio, quando nel 1985 giunse ai vertici del potere dopo la lunga stagione dei leader mummificati, Brezhnev, rimasto al Cremlino fino a quando la malattia che lo aveva praticamente immobilizzato non se lo portò via nel 1982. Poi Andropov e Chernenko che sopravvissero poco. Lui aveva 54 anni ed era pieno di voglia di fare, di cambiare, di ristrutturare il pachiderma all’interno del quale aveva svolto tutta la sua carriera. Era stato in pratica indicato come possibile successore da Andropov, il potente capo del Kgb che durò al Cremlino meno di due anni. I servizi segreti conoscevano perfettamente la situazione reale nella quale si trovava l’Urss e sapevano che senza cambiamenti profondi non avrebbe potuto continuare a sostenere il confronto-scontro con gli Usa.
Gorbaciov tentò di cambiare le cose con la Perestrojka e con la Glasnost (trasparenza), ma mise in moto un processo inarrestabile che portò sì al disarmo con gli Stati Uniti ma anche alla disintegrazione dell’impero e al crollo del sistema che aveva tenuto assieme il Paese dalla rivoluzione del 1917. Se ne andarono i Paesi satelliti, se ne andarono le repubbliche che facevano parte dell’Urss e la Russia «finì» nelle mani dei democratici oltranzisti guidati da Boris Eltsin che non volevano avere più nulla a che fare con il comunismo.
Proprio nei giorni del suo compleanno trent’anni fa Gorbaciov provò a salvare il salvabile, mentre il Paese era paralizzato dal nuovo sciopero generale dei minatori. Promulgò un referendum tra i cittadini sovietici che ancora lo ascoltavano: «Ritenete necessario preservare l’Urss come una rinnovata federazione di repubbliche sovrane?». Il 76,4 per cento di russi, bielorussi, ucraini, kazaki, eccetera risposero di sì. Ancora oggi l’anziano leader è convinto che quella sarebbe stata la strada giusta: «Certamente si sarebbe dovuta preservare una Unione rinnovata e rifondata che garantisse alle repubbliche ampi diritti e una reale sovranità». Ma le cose andarono diversamente.
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