Autobiografia postuma da vivo Walter Pedullà, critico militante
A novant’anni lo studioso si racconta per Rizzoli: le origini, gli incontri, la politica, la letteratura
Stefano D’Arrigo sdraiato per terra, in tuta, impegnato a sostituire parole e ad aggiungere frasi alle bozze di Horcynus Orca, usando una penna a quattro colori e incollando strisce di carta «che rendevano la bozza un aquilone policromo». Malerba e Calvino a Parigi, che si vedono e parlano poco di letteratura e più spesso «del termosifone che non funzionava». Giacomo Debenedetti a Palermo, accolto all’arrivo del vagone letto da Roma dagli studenti che lo accompagnavano dall’albergo all’università e «lo assillavano di domande dal pomeriggio alla notte». Gadda di poche parole, appoggiato alla libreria bianca di casa Debenedetti, Pasolini, Moravia, Manganelli. Elio Pagliarani testimone di nozze (con il prete che, quando lo scopre, tira fuori dalla tasca una copia della Ragazza
Carla e si decide a dare il suo consenso allo sposo pure se ateo e non cresimato), Sciascia «che arrivava da Parigi col cervello pieno di idee appena sfornate nella Capitale europea della cultura più avanzata e col bagaglio carico di souvenir».
C’è tantissimo Novecento letterario italiano, frequentato e vissuto, nella vita di Walter Pedullà raccontata da lui medesimo. E non solo perché queste memorie — Il pallone
di stoffa, Rizzoli — sono, come recita il sottotitolo, quelle «di un nonagenario» — Pedullà è nato nel 1930 e oggi è professore emerito alla Sapienza — passato attraverso battaglie e mondi diversissimi (l’università, la politica, la presidenza della Rai, tre riviste fondate, una casa editrice diretta, saggi e antologie che sono punti fermi della critica letteraria) ma perché, lo confessa lui stesso, «all’analisi del mio sangue, risulta cospicua presenza di inchiostro. Sconfino sempre dalla letteratura alla realtà e viceversa».
Inutile la premessa iniziale — «mi riprometto di raccontare la mia vita fuori dalla letteratura degli altri» —: Pedullà è destinato a tradirla (del resto è sempre lui che, ragionando di deformazioni professionali, chiama in causa Basilio Puoti, che, in punto di morte, disse: «Me ne vado ma si può dire anche: “Me ne vo”»). Nel caso di Pedullà, però, raccontare poeti e romanzieri da vicino non significa tradirne l’arte: la persona fisica, reale, qui, non toglie nulla alla vocazione letteraria, alla suggestione. È vero anche che, quasi novantenne e dopo essere clinicamente morto una volta — «il 13 dicembre 2010 alle ore 13» — e riportato in vita grazie a un defibrillatore, il critico e studioso prova davvero a raccontarsi in quella che lui chiama l’autobiografia postuma di un vivo: «Scrivo — dice — per sapere quale è stata la mia vita vera».
E si racconta sul serio: l’infanzia non facile a Siderno, in Calabria, il padre sarto («non lo sapeva, ma era un personaggio da romanzo verista»: è lui che, con gli scampoli di stoffa, cucirà per il figlio il pallone del titolo, fatto per rivaleggiare,
«Nel mio sangue risulta cospicua presenza di inchiostro. Sconfino da letteratura a realtà»
e vincere, con quello di pelle di un bambino ricco), i fratelli e sorelle. Poi gli amici, l’iniziazione politica, le ore, tantissime, passate a dare lezioni private, leggere, studiare. La formazione critica, i maestri. L’approdo a Roma, i giornali. I mille incontri (anche con Wojtyla, con cui Pedullà discute di teatro).
Un lungo racconto, un romanzo di formazione: da Valter, come registra l’impiegato dell’anagrafe di Siderno, a Walter. Ma, in ogni pagina, Pedullà non smette mai di essere più di tutto e fino in fondo un critico. Militante, appassionato. Che non nasconde amori e qualche idiosincrasia. Sempre nel segno del maestro amatissimo Debenedetti e del suo intendere la critica come ciò «che svela i segreti di un autore che ignorava di possederli».