IL BUON ESEMPIO
Un popolo ha tanti diritti, compresa l’ingratitudine, escluso l’autolesionismo. Un governo ha tanti doveri, compreso quello di adottare misure che impediscano a un popolo di farsi del male. Un dovere raddoppiato, nonostante una maggioranza troppo spesso divisa su tutto, a fronte di un inatteso o non adeguatamente calcolato ritorno di fiamma del Coronavirus: quadro in peggioramento veloce in 18 regioni, giovani e giovanissimi (tra i 10 e i 29 anni) diventati primo bersaglio, un’età media dei ricoverati scesa a 50 anni e la previsione di un aumento di 5 volte dei casi entro fine mese.
L’allarme sta suonando forte. Trascurarlo, minimizzarlo, o peggio negarlo, minerebbe i benefici di quanto di buono ottenuto finora: la variante Delta ha un indice di contagio 7, contro il 3 dell’originale Alfa. «Circolazione intensa», dicono all’Istituto superiore di Sanità, con il tasso di trasmissibilità avviato a superare la soglia critica dell’1 per cento, e allora anche la pressione sugli ospedali potrebbe risentirne. Tutto sta a come si deciderà di reagire a questa ennesima ondata: perché di questo di tratta, non di un colpo di coda del nemico ma di un feroce contrattacco.
Nonostante le lusinghiere affermazioni dei promotori, è alquanto improbabile che la proposta referendaria depositata presso la Corte di Cassazione possa effettivamente condurre ad una autentica riforma della giustizia.
Non concorrono a tale eventualità in primo luogo le tempistiche, che rappresentano un vero e proprio percorso ad ostacoli per giungere alle urne. Infatti, dopo la raccolta delle necessarie 500 mila firme almeno, le stesse dovranno essere depositate presso l’Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione il quale dovrà verificarne la validità. A seguire l’incartamento passerà nelle mani della Consulta, per il vaglio di legittimità costituzionale dei quesiti, e soltanto una volta superato anche quest’ultimo scoglio, sarà possibile giungere alla votazione che, secondo calcoli realistici, potrà avvenire in una domenica compresa tra la metà di aprile e il 15 giugno.
Poiché si tratta di valutazioni che certo non sono sfuggite ai promotori del referendum, l’ipotesi che l’iniziativa sia stata messa in atto al fine di condizionare il percorso riformatore già avviato dal Governo, non è del tutto peregrina, tanto più se si considera la singolarità dovuta al fatto che ad assumerla sia stata una forza politica di governo. Inoltre, stiamo parlando di un referendum abrogativo, un’arma politica normalmente in mano ai partiti di opposizione, che ha assunto gradualmente un significato sempre più marcatamente politico a seguito dell’aggravamento della crisi della rappresentanza politica ritenuta responsabile di inerzia legislativa. Ma il punto sostanziale è comprendere se il referendum o per meglio dire i sei quesiti referendari, possano effettivamente rappresentare uno strumento di trasformazione istituzionale, nello specifico della giustizia, ovvero, al contrario, un intralcio al raggiungimento di tale scopo.
Prescindendo dalla criptica formulazione dei quesiti e dalla loro eterogeneità, questioni che verosimilmente rappresenteranno gli ostacoli alla ammissibilità del referendum, va detto con onestà intellettuale che le tematiche affrontate effettivamente necessitano di un intervento legislativo. I quesiti sulla responsabilità civile dei giudici e la separazione delle carriere degli stessi sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti, rispondono ad esigenze sostanziali volte, tra l’altro, ad attenuare la profonda crisi di efficienza e di legittimazione della magistratura. Ma tali problematiche non sono certo risolvibili con la richiesta di abrogazione di disposizioni normative senza una adeguata e preordinata rete riformatrice che disegni percorsi formativi utili a distinguere le funzioni dei giudici, preservandone comunque la loro autonomia e indipendenza.
Un discorso analogo può essere fatto per quanto riguarda il quesito sulla custodia cautelare. Se esaminato correttamente nel merito, è possibile accertare che lo stesso, operando su una semplice abrogazione di una norma, non risolve ma anzi aggrava il problema. I quesiti relativi ad una implementazione del ruolo dei laici nei Consigli Giudiziari e quello delle candidature dei magistrati al Consiglio Superiore della Magistratura, sono irrilevanti ai fini dell’obiettivo che si vorrebbe raggiungere.
Parimenti il quesito relativo alla abrogazione della legge Severino, nella parte in cui prevede la sanzione accessoria della incandidabilità a cariche pubbliche in ipotesi di condanna per alcuni reati, pur avendo un’evidente fondamento essendo la misura sproporzionata rispetto allo spirito della norma, rischia seriamente l’inammissibilità alla luce dei vari interventi della Corte Costituzionale relativi alla improponibilità di norme regolatrici della incandidabilità.
Pur essendo difficile non convenire sulla attuale anomalia del potere giudiziario, e sulla necessità di una sua complessiva ed organica riforma, sarebbe con franchezza impensabile che ciò possa avvenire al di fuori di un quadro legislativo istituzionale meditato.
Il dubbio
Che l’iniziativa sia stata messa in atto al fine di condizionare il percorso riformatore già avviato dal Governo