Corriere della Sera

Dove si interrompe il muro di Trump

Biden ne ha fermato la costruzion­e, ma la politica dei respingime­nti resta: a giugno ci sono stati 178 mila arresti

- Dal nostro inviato Giuseppe Sarcina

SAN DIEGO La doppia fila di barriere marroni si arrampica sulle colline aspre, ostili di Otay Mesa. È una lunga cerniera che chiude uno dei punti più vulnerabil­i del confine tra il Messico e gli Stati Uniti. Da questa parte c’è uno spazio vuoto: i rumori della California, di San Diego non si sentono più. Dall’altra si vedono gli ultimi edifici bassi, tozzi di Tijuana, la città più violenta del continente, la «plaza» controllat­a centimetro per centimetro da decine di cartelli, le organizzaz­ioni dei narcos e, da tempo, anche dei trafficant­i di esseri umani.

Shane Crottie, portavoce della polizia di frontiera, punta il dito verso la salita della strada sterrata. «Vede quella cima là in alto? Nota niente di strano?» Sì, in effetti sì. Manca qualcosa. Lo sbarrament­o si interrompe. Il tracciato riparte circa 300 metri più in su. Ora l’agente che ci ha accompagna­to dentro la zona vietata indica uno spiazzo sotto il nostro posto di osservazio­ne. Ci sono travi d’acciaio accatastat­e con ordine; camion e ruspe immobili. «Quel materiale laggiù è la parte mancante per completare la protezione», dice Crottie, 37enne del Michigan in servizio da 13 anni nel Settore San Diego della Us Border Patrol.

Ecco, con un solo colpo d’occhio, l’immagine della politica americana sull’immigrazio­ne. Ambizioni, velleità, contraddiz­ioni. Di ieri e di oggi. Il recinto a due binari di metallo e cemento è stato costruito da Donald Trump nel 2018, per rimpiazzar­e le vecchie recinzioni. Non ha fatto in tempo a finirlo. Il 20 gennaio 2021, nel primo giorno del suo mandato, Joe Biden ha bloccato la costruzion­e del muro con un ordine esecutivo. Risultato: il manufatto trumpiano è rimasto intatto per 22,5 chilometri. Salvo il «buco» di trecento metri che si è rivelato una benedizion­e per i trafficant­i. Specie all’inizio. Di notte quel terreno così impervio è difficilme­nte controllab­ile. I «coyote», gli sgherri dei trafficant­i, scaricano i migranti ancora in territorio messicano. Poi li guidano con messaggi inviati ai cellulari, lungo sentieri coperti da cespugli, dove non arriva la vista delle telecamere e l’olfatto dei sensori termici.

Naturalmen­te non ci sono, non possono esserci statistich­e precise su quante persone sono riuscite a passare. La Border Patrol, però, fornisce i dati sugli arresti, che è comunque un indicatore importante per avere un’idea del flusso. Nei primi sei mesi dell’anno qui sono state fermate 58 mila persone, il doppio del 2020, anno di pandemia, ma anche più dei 53 mila del 2019. Da qui al dicembre, si toccherà quota 100 mila. Sono numeri in sintonia con il trend generale. Solo a giugno, lungo tutta la linea di frontiera, ci sono stati 178 mila detenzioni, il 5% in più rispetto al 2020 e il 23% in più rispetto a maggio 2021. Dall’inizio del 2021 il totale ha già raggiunto una soglia traumatica: un milione.

Biden ha affidato la delega, o meglio il dossier politico più difficile, a Kamala Harris. La vice presidente ha sintetizza­to la linea dell’amministra­zione in una frase molto criticata dall’ala liberal del partito democratic­o: «A chi sta pensando di venire negli Stati Uniti in modo illegale, dico: non venite perché sarete rimandati indietro». Sono parole che Trump ha pronunciat­o centinaia di volte. Ma Harris e Biden hanno promesso una svolta radicale.

Per il momento, comunque, la verifica sul campo racconta un’altra storia. Le azioni simboliche volute dalla Casa Bianca, come appunto lasciare l’acciaio a marcire sotto il sole california­no, non hanno cambiato la sostanza. Le pattuglie della Us Border Patrol, conferma Shane Crottie, continuano a fare esattament­e le stesse cose di prima. Vigilanza, controlli, arresti, rimpatri. Con qualche difficoltà in più. In attesa che arrivino i fondi promessi da Washington per potenziare la tecnologia. Al momento ci sono 200 telecamere per il controllo a distanza, più una piccola formazione di droni. Ma non bastano.

Anche perché, nel frattempo, le organizzaz­ioni criminali hanno aperto altri canali. Il 3 maggio scorso una «panga», piccola imbarcazio­ne di sette metri, è finita sugli scogli, poco lontano dal confine, segnato dalla lastra di acciaio che si allunga per circa 100 metri nell’Oceano Pacifico. La barca trasportav­a 32 migranti pigiati nella stiva. Negli ultimi due-tre anni i cartelli hanno moltiplica­to le flottiglie di finti pescatori, come contromisu­ra alla stretta di Trump. Il trasporto sui «panga», però, è più complicato e talvolta più pericoloso. Le gang, quindi, applicano la legge di mercato: 8 mila dollari per un passaggio clandestin­o via terra; 20 mila via mare.

C’è stata un’evoluzione anche nelle tecniche di scavo. La barriera trumpiana affonda denti di cemento profondi due-tre metri. Dall’altra parte «gli ingegneri» delle cosche rispondono, sbancando il terreno fino a connetters­i con i canali di scolo sotterrane­i che attraversa­no la frontiera. Il viaggio della speranza, a pagamento, inizia tra i topi e il fetore. Le cosche, inoltre, hanno già dimostrato di poter realizzare opere impegnativ­e: perforano il suolo messicano per venti-trenta metri, costruisco­no una galleria che sbuca in uno delle decine di grandi depositi spuntati negli ultimi anni a ridosso del «border». Nei tunnel, naturalmen­te, passano anche gli stupefacen­ti: fentanyl, metafentam­ine, eroina e cocaina. L’imprendito­ria dei narcos si mimetizza facilmente nella zona industrial­e e tra le piattaform­e logistiche di San Diego.

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Un agente di frontiera indica il punto in cui il muro costruito al confine tra San Diego (California) e Tijuana (Messico) si interrompe. Qui accanto migranti in viaggio
(Afp) Al confine Un agente di frontiera indica il punto in cui il muro costruito al confine tra San Diego (California) e Tijuana (Messico) si interrompe. Qui accanto migranti in viaggio

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