CAPRI, L’ISOLA DI CHI CAMMINA (NEL NOME DI COSTANZA)
I Bagni di Tiberio e i sentieri stretti e scoscesi che fanno sembrare il mare lontano I primi indimenticabili passi di una bimba
Si chiama Costanza, come mia figlia. O meglio: mia figlia si chiama come lei. È vero che a Capri si chiamano tutti Costanzo, è il santo patrono. Ma se dovessi dire da dove è venuta fuori l’idea di dare quel nome alla mia primogenita, non posso fare a meno di pensare a lei, questa bella donna magra ed energica, scura di capelli forti e di occhi raggianti, capo indiscusso dell’impresa familiare che gestiva e tuttora gestisce lo stabilimento dei Bagni di Tiberio, dove la mia bambina per la prima volta ha camminato. Che detta così sembra una cosa banale, capita a tutti, ma per noi genitori fu un momento di emozione speciale, perché dovemmo aspettare più del solito prima di provarla, e curare nel frattempo il piccolo problema alle anche con cui era nata.
Non che ci sia molto spazio per camminare, ai Bagni di Tiberio. È una striscia stretta stretta di sassi, neanche un granello di sabbia grazie a Dio, e più che altro un reticolo di palafitte di legno che reggono cabine, corridoi, il quadrato del ristorante, il rettangolo con due tavolini davanti al bar. Non è neanche facile arrivarci. C’è un gozzetto che ti ci porta da Marina Grande, perché per andarci a piedi il sentiero è troppo lungo e scosceso. La barca corre lungo la costa, dal lato opposto a quella dei Faraglioni e di Marina Piccola, la parte meno vip dell’isola, più popolare e familiare, fatta per le gite di un giorno. Però ha il fascino della classicità. E tutto grazie a Tiberio, il figlio di Livia Drusilla, quello strano, ambiguo, riservato, apparentemente indeciso imperatore, che si esiliò sull’isola e da lì governò Roma per otto anni, confrontandosi per primo con i poteri del principato senza il carisma del fondatore Augusto. Si era fatto costruire dodici ville a Capri, la più grande Villa Jovis, sul cocuzzolo che guarda Punta Campanella, dove il mare sbatte di continuo perché le correnti vi si incontrano; un tratto così perennemente agitato che i napoletani, prima del tempo degli aliscafi, qui non ci venivano, preferendo la più vicina e accessibile Ischia.
Il fatto è che Capri non ha molto a che fare con il mare, se non per essere stata strappata alla terraferma da un qualche capriccio della geologia in un qualche momento della preistoria. I capresi non sono marinai, a differenza degli ischitani. La gente di qui è gente di terra, contadini, discendenti di coltivatori di viti e di produttori di seta, brillantemente convertitisi in una delle più redditizie industrie turistiche del mondo. L’isola è aspra e scoscesa, tutta salite e discese a picco, il mare è dappertutto lontano. Nella bellezza dei ragazzi e delle ragazze capresi c’è un tratto comune quasi genetico: grandi e forti polpacci. I nonni di mia figlia, che venivano qui già negli Anni 50 del secolo scorso, conservano le foto dei muli che portavano i bagagli su nelle case, inerpicandosi per le vie strette e impervie dell’isola.
D’altra parte anche i miei ricordi di Capri sono ricordi di camminate. Il sentiero di Pizzolungo, per esempio, che da Tragara «vola» sui Faraglioni, passa l’azzurro dell’Arco Naturale, costeggia la misteriosa Grotta di Matermania, sovrasta Villa Malaparte, la casa costruita dall’architetto Adalberto Libera per lo scrittore, che sembra fare tutt’uno con la roccia di Capo Masullo. Oppure il più impervio percorso che porta a Villa Fersen, un singolare edificio liberty fatto costruire da un poeta francese nel primo Novecento, il barone Jacques d’Adelsward-Fersen, un tipo ben più eccentrico di Tiberio, munita di altari e di fumeria d’oppio.
Questo si fa a Capri. Si cammina. Al mare ci vanno quelli con la barca. Vanno al mare di giorno e in piazzetta alla sera. Si affollano. Si assembrano. Ma se segui il Costanza-way-oflife, è un’altra cosa. Il mare lo si usava per il fresco di una calata, per sfogliare i giornali e schiacciare un pisolino nascosto nello spazio sotto le cabine e alla loro ombra, per consumare al mattino le «graffe» ancora calde e grondanti l’olio della frittura, o per dedicarsi a pranzo alle «cozziadi», singolari tenzoni di cui Costanza era arbitra insindacabile, e consistevano nel provare a mangiare le cozze in tutte le fogge e ricette che la sua fantasia culinaria conoscesse.
A Capri quelli con la barca guardano dal mare la bellezza dell’isola. Ma sull’isola ci sono quelli che la bellezza la vivono, e tornano a casa al tramonto, con l’ultimo gozzo che porta solo donna Costanza e famiglia, niente turisti, e una bambina di nome Costanza, che con la sua omonimia si era guadagnata il lasciapassare per un’infanzia felice.