IL SUDAFRICA E GLI SPETTRI ETNICI DELLA CRISI
Nelson Mandela l’aveva chiamato «il lungo cammino verso la libertà». Sapeva che sarebbe stato anche tortuoso e accidentato. Non lo immaginava (quasi) infinito.
Il suo Sudafrica è finito nel gorgo della violenza e della quasi ingovernabilità. Una crisi che rischia di diventare la più grave di sempre. A Sharpeville, il 21 marzo del 1961, una manifestazione contro l’apartheid, il regime di segregazione razziale, provocò 69 morti. I disordini di questi giorni nel KwaZulu-Natal ne contano già più di 200. Desmond Tutu aveva coniato per il Sudafrica il nome di Rainbow Nation (la Nazione Arcobaleno) per la capacità di tenere insieme i tanti popoli che vivono nel Paese. E sono addirittura 11 le lingue ufficiali riconosciute dalla Costituzione, una delle più avanzate e moderne del mondo. Ma discriminazioni e divisioni restano. Accentuate, in questi ultimi mesi, dallo tsunami della pandemia. Un uragano che fa vacillare le fragili infrastrutture del Sudafrica. La rivolta nel nome di Jacob Zuma, l’ex presidente incarcerato di etnia zulu, sono il segnale inquietante di quanto contino ancora tanto, troppo, le appartenenze etniche. Affiorano i retaggi di un passato dal quale Mandela aveva spesso messo in guardia. Il Sudafrica che è riuscito a fare i conti con la tragedia dell’apartheid, rimuovendo i macigni dell’odio e della vendetta con l’arma di una riconciliazione saggia e intelligente, fatica a trovare pace dentro casa. Gli eredi di Nelson Mandela sono apparsi via via più sbiaditi e l’attuale presidente Cyril Ramaphosa appare debole e persino impaurito. I mestatori del torbido paventano scenari apocalittici. Ma il Sudafrica non è lo Zimbabwe, il vicino confinante, regredito a livelli di povertà inimmaginabili. Risuona ancora la filosofia di Mandela, quell’ubuntu che ha fatto di un Paese lacerato una Nazione compatta. Nonostante tutto.