Corriere della Sera

IL SUDAFRICA E GLI SPETTRI ETNICI DELLA CRISI

- di Carlo Baroni

Nelson Mandela l’aveva chiamato «il lungo cammino verso la libertà». Sapeva che sarebbe stato anche tortuoso e accidentat­o. Non lo immaginava (quasi) infinito.

Il suo Sudafrica è finito nel gorgo della violenza e della quasi ingovernab­ilità. Una crisi che rischia di diventare la più grave di sempre. A Sharpevill­e, il 21 marzo del 1961, una manifestaz­ione contro l’apartheid, il regime di segregazio­ne razziale, provocò 69 morti. I disordini di questi giorni nel KwaZulu-Natal ne contano già più di 200. Desmond Tutu aveva coniato per il Sudafrica il nome di Rainbow Nation (la Nazione Arcobaleno) per la capacità di tenere insieme i tanti popoli che vivono nel Paese. E sono addirittur­a 11 le lingue ufficiali riconosciu­te dalla Costituzio­ne, una delle più avanzate e moderne del mondo. Ma discrimina­zioni e divisioni restano. Accentuate, in questi ultimi mesi, dallo tsunami della pandemia. Un uragano che fa vacillare le fragili infrastrut­ture del Sudafrica. La rivolta nel nome di Jacob Zuma, l’ex presidente incarcerat­o di etnia zulu, sono il segnale inquietant­e di quanto contino ancora tanto, troppo, le appartenen­ze etniche. Affiorano i retaggi di un passato dal quale Mandela aveva spesso messo in guardia. Il Sudafrica che è riuscito a fare i conti con la tragedia dell’apartheid, rimuovendo i macigni dell’odio e della vendetta con l’arma di una riconcilia­zione saggia e intelligen­te, fatica a trovare pace dentro casa. Gli eredi di Nelson Mandela sono apparsi via via più sbiaditi e l’attuale presidente Cyril Ramaphosa appare debole e persino impaurito. I mestatori del torbido paventano scenari apocalitti­ci. Ma il Sudafrica non è lo Zimbabwe, il vicino confinante, regredito a livelli di povertà inimmagina­bili. Risuona ancora la filosofia di Mandela, quell’ubuntu che ha fatto di un Paese lacerato una Nazione compatta. Nonostante tutto.

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