Le architetture di Perugino
Mostra intrigante, questa del Perugino che apre domani al Palazzo Ducale di Urbino, e concentrata, dopo la grande rassegna del 2004 a Perugia, ma ricca di spunti e nuovi stimoli. Perugino, nato attorno al 1450, «dopo una prima formazione in patria si spostò a Firenze dove “studiò sotto la disciplina d’Andrea del Verrocchio” (Vasari)... una vera scuola del mondo frequentata dai più promettenti talenti della pittura fiorentina (tra cui Lorenzo di Credi, Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio)». Così Vittorio Sgarbi, curatore della rassegna. E su questa esperienza alla bottega di Verrocchio — che fu maestro anche di Leonardo da Vinci — dobbiamo riflettere, ma non prima di avere messo in gioco altri elementi.
Intriga in mostra un dipinto, il San Rocco di Bartolomeo della Gatta (1479) che unisce la forza di Andrea del Castagno a uno scorcio di edifici degno della tradizione della tarsia, una immagine in prospettiva i cui spazi, il cui ritmo sono inconfondibili; determinante poi la rivoluzione di Piero della Francesca con le sue scansioni misurate, assolute, dalla Resurrezione di Cristo a Borgo San Sepolcro (1450) a La leggenda della vera croce (1452-1459) al San Francesco ad Arezzo.
Torniamo al San Rocco: da dove verrà lo scorcio dei casamenti in prospettiva, così volutamente descritto? Credo che sia evidente qui il peso delle tarsie e in particolare quelle della Sagrestia delle Messe del Duomo di Firenze datate 1463 e opera di Giuliano e Benedetto da Majano su disegno (cita Francesco Arcangeli) di Alessio Baldovinetti e Maso Finiguerra, opere che risultano importanti anche per Perugino nel corso degli anni Settanta del Quattrocento. E ancora di più deve essere stato importante per il pittore lo Studiolo di Urbino del Duca Federico da Montefeltro (1476), ricco di vedute prospettiche e di figure disegnate da Sandro Botticelli, come suggeriva ancora Francesco Arcangeli nel 1942.
Qui vale la pena fare ancora una riflessione su Verrocchio e il suo studio a Firenze negli anni Settanta del secolo, determinante per la formazione del Perugino che, come ricorda Vasari, nel distrutto convento degl’Ingesuati a Firenze farà molti «ritratti di naturale... fra i quali era la testa di Andrea del Verrocchio, suo maestro». L’allievo ritrae il maestro al quale molto deve, dalla analitica attenzione ai dettagli alla capacità di inserire le figure dentro lo spazio e articolare, anzi ridisegnare, attraverso l’opera dipinta, l’architettura delle chiese.
La Deposizione, un quadro conservato alla Galleria Nazionale dell’Umbria (14731475), ci fa capire su cosa rifletteva Perugino nella bottega di Verrocchio: rocce a destra e sinistra, al centro la Madonna con il Cristo sul grembo, ai lati San Gerolamo e la Maddalena, le spigolose pieghe dei manti scandite come nelle tarsie, una architettura delle forme di grande efficacia. Perugino, ancora nel 1473, nel ciclo delle tavole con i miracoli di San Bernardino da Siena ora alla Galleria Nazionale dell’Umbria, unisce prospettiva albertiana e raffinato racconto per figure in una serie dipinta da almeno due maestri.
A questo punto possiamo capire che cosa interessa a Perugino nella bottega di Verrocchio: non lo sfumato e la visione di un naturale in perenne trasformazione di Leonardo, non le figure attente a Giovanni Pisano di Botticelli (Regoli), semmai il raffinato dialogo di Verrocchio con i fiamminghi e la grande sensibilità dello scultore e pittore per un nuovo spazio architettonico.
Dal 1479 Perugino è chiamato a Roma a dipingere nella Cappella Sistina le pareti sottostanti alla grande volta che sarà affidata nel 1508 a Michelangelo; ricordo i grandi campi a fresco: il Viaggio di Mosé, la Resurrezione di Cristo, la Consegna delle chiavi; è proprio questo ultimo riquadro a fissare un canone poi sempre ripreso, il dialogo tra figure in primo piano e strutture dello sfondo: due archi di trionfo all’antica ai lati e un’architettura a pianta centrale che cita la cupola brunelleschiana del Duomo fiorentino e scandisce l’asse mediano del dipinto. Così nel grande Gonfalone della Giustizia (1496) la lezione spaziale di Alberti e quella della tarsia prospettica sono evidenti; nell’immagine le proporzioni sono ideologiche, infatti i Santi Francesco e Bernardino sono fuori scala rispetto all’affollarsi minuto dei fedeli al fondo; sono poi vera messa in scena teatrale i cherubini sospesi nel cielo mentre la Madonna e gli Angeli, scorciati dal basso, avanzano verso di noi.
Perugino resta un grande narratore, un protagonista della scena pittorica italiana, come mostra bene la predella del grande polittico dei frati agostiniani di Perugia (1502-1512) ora alla Galleria Nazionale dell’Umbria. Nella Predica del Battista cogli subito le bilanciate corrispondenze fra gruppi di figure e dossi di monti e alberelli; nella Adorazione dei Magi la tettoia a sinistra disegna lo spazio in prospettiva. Le ultime due scene della predella esaltano, con l’architettura, il racconto: ne Le nozze di Cana le arcate evocano Michelozzo, l’allievo di Brunelleschi; ne La presentazione al tempio ecco un edifico a pianta centrale ancora di sapore brunelleschiano dove le figure respirano il tempo misurato della simmetria.
È questa l’eredità che Perugino trasmette a Raffaello, suo allievo e discepolo (ecco spiegato il titolo della mostra), Perugino che, ricorda ancora Sgarbi, per vent’anni, dal 1480 al 1500, è stato la figura dominante sulla scena pittorica italiana e che trasmette al ragazzo di bottega, affidatogli dal padre Giovanni Santi, la capacità di comporre e dominare lo spazio.
Ma ormai Raffaello, già nella Deposizione Baglioni (1507) ora alla Galleria Borghese di Roma, ripensa figure e gesti di un antico teatro creando un nuovo linguaggio di portata europea.