I moniti di Hobsbawm sul culto della nazione
Il grande storico britannico Eric Hobsbawm (1917-2012) era ben consapevole di quanto distruttive possano essere le suggestioni identitarie e di quanta responsabilità gravi a tal proposito sugli studiosi del passato. La storia, sono parole sue, è «la materia prima per le ideologie nazionaliste, etniche o fondamentaliste, così come i papaveri sono la materia prima per la produzione di eroina». Un paragone eloquente, che troviamo nel primo dei 23 interventi di Hobsbawm, tutti acuti e interessanti, raccolti nel volume Nazionalismo. Lezioni per il XXI secolo, edito da Rizzoli a cura di Donald Sassoon (traduzione di Paolo Falcone e Rosa Prencipe).
Di origine ebraica, di formazione cosmopolita e di orientamento marxista, Hobsbawm usava sottolineare gli anacronismi, ancora più frequenti delle menzogne, nelle narrazioni dei politici nazionalisti. Le sue vaste conoscenze gli permettevano di divertirsi a mettere in risalto contraddizioni e paradossi delle mitologie patriottiche. E non aveva alcun dubbio sul fatto che la nazione fosse un «prodotto artificiale» e relativamente recente, costruito soprattutto attraverso la scolarizzazione di massa promossa dai governanti dei diversi Stati nella seconda metà del XIX secolo. A lui si deve del resto l’illuminante concetto di «invenzione della tradizione».
Peraltro Hobsbawm era ben consapevole della presa che il sentimento nazionale esercita anche sugli strati popolari, compreso il proletariato. Quando la coscienza di classe «si è scontrata con una coscienza nazionale, religiosa o razziale, solitamente si è arresa», osservava nel 1986. E dalla guerra delle Falkland, che aveva segnato un successo enorme della premier conservatrice Margaret Thatcher, ricavava un chiaro insegnamento per tutta la sinistra: «È pericoloso lasciare che il patriottismo diventi appannaggio esclusivo della destra».
In definitiva, Hobsbawm coglieva appieno la potenza del nazionalismo in quanto fenomeno strettamente legato all’avvento della società di massa: «Una volta che esistono — avvertiva nel 1978 —, le nazioni sono praticamente indistruttibili. Dobbiamo convivere con esse e, soprattutto, all’interno di esse».