Lingotto, dal rombo agli uccellini
La pista sul tetto trasformata in giardino pensile. Così Torino segue l’esempio di New York
Fa un certo effetto guardare la facciata del Lingotto senza più bandiere né loghi mitici dell’automobile. Anche quarant’anni fa erano spariti e aveva rischiato di sparire anche la fabbrica, salvata dal progetto di Renzo Piano sostenuto con convinzione dall’Avvocato Agnelli.
Ma mentre quest’estate, dopo il trasloco del management, si svuotava per sempre la palazzina uffici e si picconavano gli stemmi, sulla pista di collaudo che un tempo lasciava tutti a bocca aperta è successo qualcosa. Qualcosa che non c’entra con la geografia di un’azienda che di torinese ha ormai solo la memoria. E che porta nuova vita — un po’ aliena in verità — sul tetto del Lingotto caduto in letargo.
L’architetto e paesaggista Benedetto Camerana dice che è come se il vento avesse trasportato semi e spore e il verde fosse atterrato da solo. In realtà il suo progetto per il giardino pensile più grande d’Europa è tutt’altro che spontaneo: non è facile innestare e far vivere trecento specie di piante autoctone del Piemonte sul bitume che d’estate arrostiva gli inquilini dell’ ex-stabilimento. E poco spontaneo è sembrato anche a Soprintendenza e urbanisti della vecchia guardia, perplessi all’idea di piantare il dondolino selvatico e il corniolo là dove sfrecciavano i bolidi da corsa e le Balilla. Ma tant’è.
Da tempo i giardini pensili hanno aperto squarci vivibili nel tessuto denso e intricato di alcune metropoli. Il più famoso è la High Line di New York, che ha trasformato una ferrovia dismessa di Manhattan in una lunga passeggiata tra i grattacieli e il fiume Hudson. Ma anche nei Docks di Londra o lungo la Promenade Plantée di Parigi si può salire a mangiare un panino tra le frasche. Così sarà anche a Torino: seimila metri quadri di sottobosco, incorniciati tra il quartiere popolare e le Alpi. Il percorso è ad anello, un «parco lineare ciclico» spiega Camerana, con panchine, un prato per fare yoga, vistapoint mozzafiato e aree relax. Ma invece del verde, si chiede qualcuno, non si sarebbero potute mettere memorie statiche o rumoreggianti, in un percorso concettuale più simile a una vicenda, una fabbrica, uniche al mondo?
La verità è che la pista, nella nuova vita immaginata nel 1983 da Renzo Piano, era rimasta intatta, ma anche emarginata, imbalsamata anzi, come mero panorama per chi visitava la Pinacoteca Agnelli o accompagnava il top management FCA in elicottero. Non solo era vuota
Sopra il bitume, 300 specie di piante autoctone piemontesi: una scelta che divide
da trent’anni, ma nessun soggetto, pubblico o privato, si era mai fatto avanti con un’idea percorribile per riportarla alla sua funzione e alla gente.
Il tema del giardino pubblico in cima al Lingotto non tocca solo l’archeologia industriale. È l’automobile stessa che sta cambiando, tanto e intimamente, e così trascina anche la sua storia. L’approdo elettrico, almeno con le sue zavorre attuali, forse non è ancora un arrivo, ma è indubbio che per la prima volta ricerca, tecnologia e marketing stiano navigando all’unisono. E poi c’è l’opprimente questione ambientale globale di cui l’auto non è un granello. Ecco perché è mutato l’atteggiamento di chi guida, o dovrebbe farlo e non lo fa più (in Europa un quarto dei ragazzi sono in età da patente). Benvenute allora le città che si ammodernano e tolgono le auto anche dai tetti. Mentre i simboli si adeguano, senza essere distrutti. La pista del Lingotto, a ben guardare, è ancora un monumento, mantiene la sua silenziosa possanza e le sue curve intatte. Ma è cambiato il vento, e lei si ammanta di un prato millefiori.