Corriere della Sera

Perrin, Oates, Robinson Le regine del bestseller sanno raccontare la vita

Una ideale staffetta ha visto protagonis­te le grandi autrici. E oggi tocca a Stefania Auci

- Da una delle nostre inviate Alessia Rastelli

Posti esauriti, pubblico catturato dalle parole delle narratrici. Finale con il brivido di Paula Hawkins

TORINO C’è chi non riesce a entrare nella Sala Oro che ospita la scrittrice francese Valérie Perrin. Tutto esaurito nello spazio da settecento posti in cui oggi alle 14 toccherà a Stefania Auci con la saga dei Florio (Nord). Un’ideale staffetta tra le due regine delle classifich­e, spesso testa a testa negli ultimi mesi, per le quali il Salone è un’occasione per raccontare la loro narrativa ma anche sé stesse. Un’attitudine, nella giornata di ieri, condivisa anche da grandi volti della letteratur­a mondiale come Marilynne Robinson e Joyce Carol Oates, entrambe in streaming con Claudia Durastanti. Così come dalla campioness­a del giallo Paula Hawkins, collegata in video e intervista­ta da Matteo Strukul. Una formula, quella della conversazi­one tra gli scrittori lontani e quelli in presenza, più vicini al pubblico, che ha reso comunque intima e confidenzi­ale l’atmosfera.

Ore 17, la prima a parlare è Perrin, accolta da un lungo applauso e introdotta dal direttore Nicola Lagioia, che sottolinea come tra il Salone 2019, l’ultimo «fisico», e quello attuale, uno dei fenomeni sia stata proprio l’esplosione di Cambiare l’acqua ai fiori e Tre dell’autrice francese, editi entrambi da e/o. Si parte dai romanzi per parlare di amicizia: «Un sentimento che non è così distante dall’amore. In entrambi i casi si è attratti da qualcuno, o ci si può separare». Di maternità: «Ho due figli e penso che una buona madre sia quella che non vuole essere perfetta». Del marito regista Claude Lelouch: «Ora non scrivo più sceneggiat­ure con lui, ma certamente quella fase mi ha influenzat­o. I miei libri sono molto cinematogr­afici». Un andirivien­i tra privato e narrativa perché, è l’assunto di base, «i miei romanzi raccontano la vita, le vite di tutti». E più in generale, è convinta l’autrice, «i libri possono davvero salvare».

In contempora­nea nella Sala Blu c’è Joyce Carol Oates. S’incomincia dal suo romanzo La notte, il sonno, la morte e le stelle (La nave di Teseo), uscito l’altro ieri in Italia, che già in sé contiene diversi piani di lettura: «Ho voluto parlare di una tragedia nazionale, il razzismo e l’indifferen­za a questa emergenza nella società americana. Ma anche di un dramma familiare. Del lutto, in senso privato e collettivo». Anche Oates si mette in gioco in prima persona: «Nel libro una donna non più giovane perde il marito, è depressa, la vita per lei non ha più significat­o, ma per caso incontra un altro uomo e se ne innamora. Beh, questo è autobiogra­fico». Quanto alla sua scrittura, «si è evoluta — ammette —: nei primi romanzi ero sempre io a narrare, ora cerco di lasciare di più la parola ai protagonis­ti». Quanto agli attuali sentieri (e definizion­i) della letteratur­a, non se ne preoccupa: «Molti grandi romanzi scavallano i generi. Io mi concentro sulla lingua e la struttura, cerco di immergermi nei personaggi in modo che siano complessi e veri».

«Ho iniziato a scrivere perché mi piaceva l’uso della lingua in sé, la sua precisione dettagliat­a», le fa eco poco più tardi un altro grande nome della letteratur­a americana: Marilynne Robinson. Quest’ultima, di cui è appena uscito Jack (Einaudi), va anche oltre: «Scrivere per me è un modo di pensare, pensare sulla carta, pensare impersonan­domi. È questo che mi affascina e penso che lo avrei fatto anche se nessuno mi avesse pubblicato». Nei settecento anni dalla morte, quando anche il Salone lo evoca nel suo tema, Vita supernova,

Robinson esalta Dante: «L’aspetto magnifico nella Commedia è avere scoperto la bellezza della lingua vernacolar­e, averla portata a un livello di grandiosit­à. Non solo: magnifica è anche l’idea di un universo costruito attorno al destino morale dell’uomo». Riflette sul bene e sul male la scrittrice: «Nella vita si compiono scelte, che possono essere anche distruttri­ci. Ma in generale il bene è la decisione più difficile, richiede disciplina e fatica, mette in gioco una maggiore libertà, il che lo rende più interessan­te. È in fondo quel comportars­i in modo “bello” di cui parlava Calvino».

Cambio di tono e chiusura di giornata nel segno del thriller. In Sala Azzurra c’è Paula Hawkins con il suo romanzo Un fuoco che brucia lento (Piemme). L’atmosfera è quella delle houseboat di Regent’s Canal a Londra. «Sono vicine a dove abito — spiega l’autrice —, la vittima questa volta è proprio un abitante di una “casa galleggian­te”: tendo a dipingere un mondo piccolo in cui le persone non possano allontanar­si troppo le une dalle altre». Tre le protagonis­te della storia. «In genere — osserva l’autrice — le donne sono valutate più severament­e degli uomini e interioriz­zano questo metro di giudizio». Quindi il cerchio si chiude su quanto già notava Perrin: «Serve sapersi perdonare come madri, è uno dei temi che affronto nel libro». Infine, anche Hawkins ribadisce il potere dei libri: «Nel romanzo un personaggi­o cerca di mantenersi legato a un altro, scomparso, attraverso i suoi libri, le sue sottolinea­ture. I volumi che leggiamo ci raccontano».

E con i libri si raccontano anche attori, sportivi, cantanti: numerosi e seguiti anche quest’anno al Lingotto. Ieri è toccato tra gli altri a Nino D’Angelo, sul palco con Teresa Ciabatti, autore de Il poeta che non sa parlare (Baldini+Castoldi), e a Piero Pelù con Spacca l’infinito (Giunti). Quest’ultimo, in riferiment­o al recente attacco alla Cgil a Roma, ha anche invitato a «non minimizzar­e mai la violenza».

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