Schwa, generi... Strumenti per una nuova lingua inclusiva
La lingua ha tempi lunghi e i traduttori sono spesso i primi a entrare in contatto con sensibilità diverse. Se l’inglese sostituisce he/she con they devi essere preparato
Ilide Carmignani
TORINO Non c’è tema del dibattito culturale che non approdi in qualche sala del Salone di Torino. Non poteva mancare quello del linguaggio inclusivo, non discriminatorio, che in Italia si è tradotto nello schwa, simbolo che, dal punto di vista della scrittura formale, dovrebbe eliminare l’uso del maschile sovraesteso, cioè usato per maschile e femminile.
Anche Chimamanda Ngozie Adichie l’ha detto nella sua lezione di inaugurazione: se, in inglese, per salutare un gruppo misto dici Hi guys non c’è niente di strano, se dici Hi girls non va bene. E non è un caso che tra i vari livelli di lettura del nuovo romanzo di Michel Faber, D. Una storia di due mondi (La nave di Teseo, presentato ieri al Salone), tutto giocato sulla sparizione della lettera D, ci sia anche la metafora dei limiti che certe estremizzazioni del politicamente corretto portano al linguaggio.
Le sensibilità d’altronde variano a seconda dei Paesi e il compito di chi traduce, anche letteratura, è cercare di tenerne conto. «Nel momento in cui devo tradurre testi che fanno uso del gender neutral non posso ignorarlo, perché sarebbe una forma di censura. Ma come fare, visto che in italiano non è codificato? — dice Ilide Carmignani che al Salone cura il format L’autore invisibile —. La lingua ha movimenti dai tempi lunghissimi e i traduttori spesso sono i primi a entrare in contatto con sensibilità diverse. Lo scorso anno per un’esperienza con un’università americana in cui era necessario usare sempre il soggetto they invece di he/she mi sono resa conto che, pur non essendo contraria, ero impreparata».
Sul tema ieri Carmignani ha organizzato un incontro coinvolgendo la scrittrice e traduttrice Franca Cavagnoli, che ha fatto una panoramica sulle varie forme di linguaggio inclusivo che si stanno creando nel mondo (they in inglese, hen in svedese, la x in spagnolo o le desinenze diverse come in todes al posto di todos e todas); Vera Gheno, sociolinguista che da sempre conduce una battaglia per l’uso dello schwa, autrice di Femminili singolari; Silvia Costantino, editrice di Effequ, primo marchio a introdurre lo schwa; Martina Testa, traduttrice dall’inglese americano ed editor di Sur che ha rivendicato, non ideologicamente ma linguisticamente, l’uso del maschile sovraesteso, come codice della lingua italiana in cui riconoscersi. Un dibattito da cui sono usciti tutti i temi — ideologici, linguistici, grammaticali — che la riflessione (necessaria) su questi argomenti porta con sé e che ha mostrato la varietà di posizioni possibili.
Anche Claudia Bianchi, filosofa del linguaggio, autrice di un volume, Hate speech (Laterza), che analizza come le parole abbiano il potere di rendere subalterno l’altro, osserva che «ci sono sistemi che non costano molto, come le declinazioni femminili professionali — avvocata, ministra, sindaca — che sono espressioni puramente grammaticali e tuttavia ci si ostina a non utilizzare per motivazioni ideologiche, ma che entreranno nell’uso comune. Bisogna abituarsi molto rapidamente, abusare del maschile è un modo per fare sparire le donne dal discorso. A me non piacciono molto i simboli, lo schwa, la x, la u. Credo ci sia moltissimo che si può fare utilizzando gli strumenti della lingua: nomi collettivi, impersonali, circonlocuzioni che oltretutto non pongono problemi di comprensione nel parlato».