UN ETERNO RISPLENDERE
A Palazzo Strozzi la retrospettiva dell’artista americano. Dai primi lavori ai gonfiabili giganti in acciaio, la complessità di un uomo controverso KOONS E L’OSSESSIONE PER LA BRILLANTEZZA (CHE NASCONDE UNA GRAN VOGLIA DI VITA)
Nel 1998 Jeff Koons si rese complice di uno dei più memorabili pesci d’aprile della storia dell’arte: fu nel suo studio che David Bowie e William Boyd convocarono solennemente i giornalisti per annunciare la pubblicazione della biografia di un grande artista scomparso, Nat Tate, dopo averne ricostruito minuziosamente la vita e l’opera. Peccato che Nat Tate fosse pura invenzione.
Koons e Bowie non avevano in comune solo il gusto del paradosso e della provocazione. Lo «shine», la lucentezza che dà corpo alla mostra di Palazzo Strozzi, rimanda costantemente all’idea del risplendere che ha accompagnato l’opera di Bowie, seppur in un originale percorso inverso rispetto a quello di Koons.
Visitando questa ricca e sontuosa retrospettiva dell’artista americano infatti, è evidente un crescendo di dimensioni, di superfici sempre più lucidate e levigate, quasi una gara di veridicità con il materiale naturale che Koons trasfigura in acciaio o in alluminio. Il Dolphin del 2002, calco illusionista di un delfino gonfiabile appeso al soffitto e con un apparato di utensili da cucina è quasi da vertigine, perché da una parte sembra più vero del vero, ma dall’altra rimanda all’oggetto giocattolo, in un assemblage surreale.
Koons, negli anni, ha perfezionato i confini di una ricerca del «vero falso», dell’iperbole iperrealista. Giocattoli giganteschi ma «morbidi» anche se fatti d’acciaio, a cominciare dal Balloon Monkey che accoglie tutti nel cortile della dimora rinascimentale. Anche nelle riproduzioni perfette dei personaggi più inquietanti, come Hulk, resta sempre un che di gioioso, ammiccante, erotico. Uno shine che tutto sommato vuole continuare a risplendere, anzi: vuole essere sempre più levigato, luccicante, dotato di soffio vitale — i suoi gonfiabili riprodotti in acciaio o alluminio non sono che un disperato tentativo di catturare la vita, di non lasciarla scappare.
Ecco dove le strade di Koons e Bowie divergono: l’americano va verso l’esplosione di «luccicanza», l’inglese ha coltivato un cammino implosivo, via via più introspettivo, dove lo shine è soprattutto sperimentazione dopo essere stato lustrini e glam rock.
E proprio in questo confronto si nota la qualità di un artista così complesso (e anche molto discusso) come Jeff Koons: una lotta per resistere, contro la caducità delle cose. Nella retrospettiva fiorentina, che parte dai primi lavori di fine anni Settanta fino a quelli più recenti, il filo invisibile che lega tutto è una straordinaria, indicibile, quasi abbagliante voglia di vivere.
Si coglie nel J.B Turner Train (1986), un trenino in acciaio pieno di alcol che sferzava una dura critica all’America degli anni Ottanta, quella in cui il potere più cool si identificava con il «drink» — e questo sconfessa l’immagine stereotipata di un Jeff Koons edonista tout court. Si vede nel busto Louis XIV, una delle tante sculture in cui l’artista riproduce in grande e dà dignità ai souvenir di bassa lega, proprio per quel processo di de-gerarchizzazione che porta alla «luccicanza»: le cose brillano se le mettiamo nella giusta luce, non importa di quale natura siano, a quali origini appartengano.
Si spiega così il suo destreggiarsi con disinvoltura ed eleganza tra l’arte antica (con le statue, che sono un prodotto molto complesso, ottenuto studiando centinaia di copie e cercando non una riproduzione, ma un originale nato dalle summa di tante imitazioni) e i riferimenti al pop, ma anche se la lezione di Warhol è — dichiaratamente — presente, davanti a un’opera di Koons non si ha mai la sensazione di trovarsi di fronte ad un trattato sociologico, bensì c’è sempre un guizzo. Una provocazione, un’allusione erotica, una critica.
E poi, dopo un anno e mezzo di chiusure, arte per vie digitali, video e installazioni sui social, che bello è ritrovarsi di fronte alla «luccicanza». Un gigantesco cuore-cioccolatino dove rispecchiarsi e, perché no, farsi una foto.
«Vite parallele»
David Bowie fece un percorso inverso, dalla luccicanza ad una sorta di introspezione