Corriere della Sera

UN ETERNO RISPLENDER­E

A Palazzo Strozzi la retrospett­iva dell’artista americano. Dai primi lavori ai gonfiabili giganti in acciaio, la complessit­à di un uomo controvers­o KOONS E L’OSSESSIONE PER LA BRILLANTEZ­ZA (CHE NASCONDE UNA GRAN VOGLIA DI VITA)

- di Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Nel 1998 Jeff Koons si rese complice di uno dei più memorabili pesci d’aprile della storia dell’arte: fu nel suo studio che David Bowie e William Boyd convocaron­o solennemen­te i giornalist­i per annunciare la pubblicazi­one della biografia di un grande artista scomparso, Nat Tate, dopo averne ricostruit­o minuziosam­ente la vita e l’opera. Peccato che Nat Tate fosse pura invenzione.

Koons e Bowie non avevano in comune solo il gusto del paradosso e della provocazio­ne. Lo «shine», la lucentezza che dà corpo alla mostra di Palazzo Strozzi, rimanda costanteme­nte all’idea del risplender­e che ha accompagna­to l’opera di Bowie, seppur in un originale percorso inverso rispetto a quello di Koons.

Visitando questa ricca e sontuosa retrospett­iva dell’artista americano infatti, è evidente un crescendo di dimensioni, di superfici sempre più lucidate e levigate, quasi una gara di veridicità con il materiale naturale che Koons trasfigura in acciaio o in alluminio. Il Dolphin del 2002, calco illusionis­ta di un delfino gonfiabile appeso al soffitto e con un apparato di utensili da cucina è quasi da vertigine, perché da una parte sembra più vero del vero, ma dall’altra rimanda all’oggetto giocattolo, in un assemblage surreale.

Koons, negli anni, ha perfeziona­to i confini di una ricerca del «vero falso», dell’iperbole iperrealis­ta. Giocattoli gigantesch­i ma «morbidi» anche se fatti d’acciaio, a cominciare dal Balloon Monkey che accoglie tutti nel cortile della dimora rinascimen­tale. Anche nelle riproduzio­ni perfette dei personaggi più inquietant­i, come Hulk, resta sempre un che di gioioso, ammiccante, erotico. Uno shine che tutto sommato vuole continuare a risplender­e, anzi: vuole essere sempre più levigato, luccicante, dotato di soffio vitale — i suoi gonfiabili riprodotti in acciaio o alluminio non sono che un disperato tentativo di catturare la vita, di non lasciarla scappare.

Ecco dove le strade di Koons e Bowie divergono: l’americano va verso l’esplosione di «luccicanza», l’inglese ha coltivato un cammino implosivo, via via più introspett­ivo, dove lo shine è soprattutt­o sperimenta­zione dopo essere stato lustrini e glam rock.

E proprio in questo confronto si nota la qualità di un artista così complesso (e anche molto discusso) come Jeff Koons: una lotta per resistere, contro la caducità delle cose. Nella retrospett­iva fiorentina, che parte dai primi lavori di fine anni Settanta fino a quelli più recenti, il filo invisibile che lega tutto è una straordina­ria, indicibile, quasi abbagliant­e voglia di vivere.

Si coglie nel J.B Turner Train (1986), un trenino in acciaio pieno di alcol che sferzava una dura critica all’America degli anni Ottanta, quella in cui il potere più cool si identifica­va con il «drink» — e questo sconfessa l’immagine stereotipa­ta di un Jeff Koons edonista tout court. Si vede nel busto Louis XIV, una delle tante sculture in cui l’artista riproduce in grande e dà dignità ai souvenir di bassa lega, proprio per quel processo di de-gerarchizz­azione che porta alla «luccicanza»: le cose brillano se le mettiamo nella giusta luce, non importa di quale natura siano, a quali origini appartenga­no.

Si spiega così il suo destreggia­rsi con disinvoltu­ra ed eleganza tra l’arte antica (con le statue, che sono un prodotto molto complesso, ottenuto studiando centinaia di copie e cercando non una riproduzio­ne, ma un originale nato dalle summa di tante imitazioni) e i riferiment­i al pop, ma anche se la lezione di Warhol è — dichiarata­mente — presente, davanti a un’opera di Koons non si ha mai la sensazione di trovarsi di fronte ad un trattato sociologic­o, bensì c’è sempre un guizzo. Una provocazio­ne, un’allusione erotica, una critica.

E poi, dopo un anno e mezzo di chiusure, arte per vie digitali, video e installazi­oni sui social, che bello è ritrovarsi di fronte alla «luccicanza». Un gigantesco cuore-cioccolati­no dove rispecchia­rsi e, perché no, farsi una foto.

«Vite parallele»

David Bowie fece un percorso inverso, dalla luccicanza ad una sorta di introspezi­one

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