«Il Tenco si è liberato dal gusto della nicchia»
Staino presiede il Club che premia la canzone d’autore «Valuto l’arte non l’orientamento politico dei musicisti»
«Le belle canzoni proliferano da tutte le parti», esordisce Sergio Staino nel raccontare la 44ª edizione del Premio Tenco, rassegna della canzone d’autore in arrivo dal 21 al 23 ottobre al Teatro Ariston di Sanremo. Il fumettista, 81 anni, presidente del Club Tenco, dice che il premio si è liberato «dal gusto della nicchia».
Che cosa intende?
«Il Club è nato in contrapposizione con il Festival di Sanremo, in polemica con la ricerca del successo facile. Ma il mondo è cambiato e la contrapposizione non ha più ragion d’essere. Sanremo ha iniziato a porsi problemi di qualità e il Tenco si è aperto ai generi, scelta che qualcuno ha visto come un tradimento».
Il tema quest’anno è «Una canzone senza aggettivi».
«Tra i premiati ci sono nomi che fanno discutere chi aveva una concezione tradizionale del Premio. Artisti come Bollani o Mannoia passano tranquillamente, ma tenevo molto anche ad altri come Mogol: lo si considerava ombroso, ma è ora di lasciarci queste cose alle spalle».
E poi Enrico Ruggeri. «Questa storia della collocazione politica di un artista lascia il tempo che trova. Non è pensabile che l’opera d’arte possa essere valutata con l’orientamento. Ruggeri racconta emozioni e vita in un modo che mi interessa moltissimo. Ci saranno cose non condivisibili a livello politico, ma rimaniamo nel campo del Premio, della qualità».
Super partes quindi?
«Se una persona dice le cose con onestà mi viene difficile etichettarla. Volevo premiare anche un artista apparentemente lontano come Pippo Franco perché ha una produzione satirica notevole».
Nonostante le uscite controverse sui vaccini?
«Mica do un premio sulla serietà ideologica. Un Van Gogh è un Van Gogh, che mi importa delle uscite politiche? Poi Pippo Franco si è candidato per la destra a Roma e questo mi ha messo in imbarazzo, fosse stato per la sinistra sarebbe stato uguale. Quindi ne riparliamo il prossimo anno».
Che legame c’è fra fumetto e canzone d’autore?
«Sono due linguaggi nati per parlare alle classi popolari che hanno dovuto lottare per farsi riconoscere dalla Cultura. Oggi si è scoperto che diamo anche messaggi importanti, penso a Zerocalcare che è riuscito a entrare in temi difficili come il Kurdistan».
Lei continua a disegnare nonostante la quasi cecità: come riesce a lavorare?
«Non vedo quasi più niente, quindi disegno solo le cose che ricordo. Ho un grosso touch screen, lavoro vedendo col poco di periferico che ancora colgo. Faccio disegni rotti e sproporzionati, però hanno una loro poesia. Poi mando tutto a mio figlio Michele che li edita e colora. Li firmiamo insieme e funzionano. Il cervello ha delle capacità di sopperire ai guai fisici che non riuscite a immaginare. La notte mi capita di pensare ai disegni che devo fare e mi accorgo che la mano destra si muove da sé, inconsciamente. E mi meraviglio».
Il disegno è necessità? «Assolutamente. Ho cominciato a 3 anni perché mia mamma non sapeva come farmi giocare. Così si è compenetrato con “il ventre materno” e la sicurezza. A quasi 40 anni, in una situazione critica personale, ho disegnato Bobo, personaggio che mi ha cambiato la vita. Invece di pagare uno psicanalista, scarico tutto su di lui. Anzi, non solo non pago, ma mi pagano».
La cecità
Non vedo quasi più niente, ma continuo a lavorare disegnando solo le cose che ricordo