Il mestiere delle armi e dell’onore È il samurai l’anima del Giappone
La casta di guerrieri nata nel Medioevo guardando al modello della Cina ha plasmato una tradizione e una nazione. Poi il declino e la rinascita pop
di Marco Del Corona
Una storia affilata, quella del Giappone. Una storia in equilibrio tra contraddizioni apparentemente inconciliabili. La lama della katana, la micidiale spada del guerriero nipponico, offre una calzante metafora del crinale lungo il quale si dispiegano tanti aspetti della cultura dell’arcipelago. E a impugnare la metafora è il samurai: perché è la tensione degli opposti il destino dell’uomo in armi.
L’origine di una figura assurta, anche fuori dallo stesso Giappone, a esempio del guerriero dotato di moralità affonda nel corpo di un Medioevo turbolento. Il combattente che pare simboleggiare l’universo estetico e di valori del Paese costituisce — e ai nostri occhi pare già un paradosso — uno degli snodi decisivi del rapporto tra Giappone e Cina. Fu sul modello della corte cinese e delle istituzioni Tang, guardando persino alla conformazione urbanistica della capitale Chang’an (la Xi’an di oggi),
Tutto ebbe inizio tra il XII e il XIV secolo: sette secoli di storia fino alla seconda metà dell’800
che a cavallo tra VII e VIII secolo dopo Cristo l’imperatore del Giappone avviò riforme che plasmarono la nazione. Scrittura, fede buddhista, burocrazia nipponiche seguirono l’illustre esempio cinese. L’esercito, anche. Con l’avvio di una «professionalizzazione» del mestiere delle armi che portò alla costituzione di clan guerrieri al servizio dei signori, gli shogun, che a loro volta erano sia vassalli sia avversari dell’imperatore.
È qui, durante lo shogunato di Kamakura (tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIV) che ha inizio la storia dei samurai, un’avventura durata sette secoli fino allo scioglimento dell’istituzione nella seconda metà dell’Ottocento, quando la restaurazione Meiji e il primo slancio modernizzatore provavano a inseguire i successi dell’Europa e degli Stati Uniti. Non una semplice epopea, quella dei samurai, dunque, ma un affollarsi di elementi e dettagli che tengono insieme tutta la società giapponese medievale e moderna, come illustra Leonardo Vittorio Arena in Samurai. Ascesa e declino di una grande casta di guerrieri, secondo titolo di «Giappone. Storia, cultura, stile di vita», la collana del «Corriere della Sera» in collaborazione con «Io Donna». Il volume segue l’affermarsi, il consolidarsi e il tramonto di una tradizione costretta alla fine a fare i conti con le «nere navi» da guerra dell’ammiraglio americano Matthew Perry, nel 1853. Eppure la chiusura dell’era dei samurai coincise con l’avvio di una leggenda che, inevitabilmente semplificata se non banalizzata, sarebbe comunque approdata ovunque. Fino all’ingresso della parola samurai nei dizionari delle lingue di tutto il mondo.
La facilità con la quale la figura — l’icona, la maschera — del samurai ha attecchito qua e là va forse rintracciata proprio nella sua capacità di armonizzare valori altrove dissonanti. La determinazione — la ferocia, anche, come testimoniato dall’iconografia e dalla letteratura — nei combattimenti conviveva con l’aderenza a codici morali mutuati dai classici del pensiero cinese. La prosaica immersione nelle cose del mondo aveva comunque una sponda nell’adesione alle rarefatte sfere del buddhismo zen (anche questo di matrice cinese) o alla pratica della poesia. La lealtà nei confronti del signore non era slegata dal senso di comunità. Il buono, il bello, il giusto: un analogo, se si vuole, della kalokagathía dell’antica Grecia. Con una coda contemporanea: con la sconfitta del Giappone nella Seconda guerra mondiale dopo la doppia apocalisse nucleare di Hiroshima e Nagasaki, dopo la demolizione dello status divino dell’imperatore, il samurai come orgoglioso custode dell’onore, pronto a immolarsi bagnando la lama nel proprio sangue, diventa il rifugio estremo della tradizione e del nazionalismo. Un’interpretazione che lo scrittore Mishima Yukio nel 1970 abbracciò con il suo spettacolare suicidio in nome della purezza perduta del suo Paese.
La costellazione di valori che sovrasta il samurai feconda l’immaginario popolare. Se un maestro del cinema come Kurosawa Akira attinge a un immenso patrimonio di storie e di immagini per raccontare I sette samurai (1954), Hollywood ghermisce subito la trama — i guerrieri che si schierano con il popolo
I robot dei cartoni animati vengono da lì. E anche Hollywood ha sfruttato la leggenda
vessato contro i cattivi — e nel 1960 I magnifici sette di John Sturges trasformano le katana di Mifune Toshiro & C nelle Colt di Yul Brynner & C. Da lì una ricca produzione cinematografica, alla quale non si sottrae, per dire, neppure Tom Cruise (L’ultimo samurai, 2003). Generazioni di gangster letterari, e non, mischiano rettitudine e abomini, l’ecosistema criminale della yakuza emula codici cavallereschi degni di miglior causa e persino l’universo dei robottoni anni Settanta — Goldrake e i suoi fratelli — è debitore dei samurai. La katana non perde il filo. È l’ennesima contraddizione e anche la prova della vitalità del mito: l’aura aristocratica del samurai si fa pop, e facendosi pop sopravvive alla propria morte.