L’ebanista del design tra arte e sperimentazione
Una mostra a Pavia racconta il genio del «falegname» Poggi
«Il legno, l’arte, il design: le tre passioni di mio padre erano queste»: così esordisce Carlo Poggi, per introdurre la mostra Il mondo di Poggi. L’officina del design e delle arti, in corso al Castello Visconteo a Pavia (fino al 30/9), retrospettiva dedicata a suo padre, Roberto Poggi, ebanista, creatore di arredi oggi famosissimi, ideati tra gli anni ‘50 e gli ‘80 dai più importanti progettisti di allora. Primo fra tutti Franco Albini.
Una personalità poliedrica, quella di Roberto Poggi, come emerge nella mostra dove a oggetti, documenti e foto (molte fatte da lui stesso) sono accostati quadri dell’epoca. «Siamo una famiglia di ebanisti da più generazioni. Mio padre in realtà si era iscritto alla facoltà di architettura del Politecnico. E, arrivato a Milano, iniziò a frequentare gli artisti che gravitavano tra Brera e il bar Jamaica, diventando amico di molti di loro». Quello era, allora, un sottobosco fatto di passioni e scambi fertili che andavano al di là di ogni scopo commerciale. «C’era chi faceva debiti per comprare le tele, chi pagava il pranzo con i quadri. Mio padre stesso barattò suoi arredi con opere dei pittori amici, arrivando a mettere assieme una vasta collezione. Che teneva in parte in fabbrica, per poterla godere sempre».
Alla morte improvvisa del padre, Roberto Poggi lasciò gli studi per prendere la guida, con il fratello, della falegnameria. Bravi, seri: una fama di fuoriclasse che li avvicinò ad Albini, e fu la svolta. «Albini era stato chiamato a progettare il rifugio Pirovano a Cervinia, e per i mobili gli suggerirono i Poggi», rievoca Carlo, mostrando il tavolo e gli sgabelli in abete che aprono la mostra, mai esposti prima. «Erano qui a Pavia, nascosti in una cantina. Sono semplici, ma lo sgabello rivela già alcuni tratti del Cicognino di Albini. E segnano l’inizio di un sodalizio lungo ed esclusivo». Nel nome del legno.
Incastri e venature perfette, dettagli curati allo spasimo: «Mio padre verificava gli arredi uno per uno in modo maniacale. E se c’era un minimo dettaglio che non lo convinceva, il pezzo veniva eliminato», ricorda Carlo. Così lo stesso Cicognino, dall’idea
La forma perfetta «Verificava ogni arredo. E se non lo convinceva, senza remore lo eliminava»
non percorribile di un vassoio smontabile, acquisì un bordo e divenne un tavolino. Mentre prove di stabilità e postura resero impeccabili sedute come la Luisa, premiata con un Compasso d’Oro, e la Tre pezzi. Niente da fare invece per la libreria Veliero, il cui problema strutturale che la faceva collassare non fu risolvibile se non ai giorni nostri.
Per uno scherzo del destino Carlo Poggi oggi è docente di ingegneria delle costruzioni: «Ci arrivai dalla facoltà di architettura: gli anni della contestazione e il consiglio dello stesso Albini mi spinsero a passare a ingegneria. Papà non fu felice, ma capì. Se però tentavo di dargli qualche timido consiglio, lo ignorava, dicendomi: “Finché il mondo sarà rotondo, gli ingegneri avranno la testa quadra!”».
Innamorato del legno, ma sperimentatore nell’anima. Come attesta l’ultima sala della mostra, dove sono esposti i pezzi creati per «altri» designer, a fine collaborazione con Albini: «Conobbe Ugo La Pietra e si appassionò al suo lavoro. Tanto da realizzare delle sue lampade per la prima volta con il plexiglas». Ma provò anche il vetro abbinato al metallo trafilato, come attesta un tavolo disegnato da lui stesso nel 1988, ultimo suo lavoro: «Materiali che non conosceva. Ma di cui si informava andando a curiosare nelle officine ». Non a caso, malgrado il suo amore viscerale per il legno naturale, con Vico Magistretti negli anni ‘70 sperimentò persino il multistrato laccato: «Sebbene proprio non gli piacesse. Ma lo provò per allinearsi al gusto di allora». Uno spaccato di un’epoca, che rimane un assaggio. Il resto è a Fabbricapoggi, idea del figlio Carlo: l’ex falegnameria restaurata e trasformata in esposizione e spazio culturale. Immersione vera nel «mondo di Poggi».
Le passioni La fotografia, con cui documentava i mobili. I quadri di pittori amici, messi anche in fabbrica