Corriere della Sera

Mussolini lontano e vicino

La nostra generazion­e deve fare i conti con il passato perché i tabù sono caduti e torna la retorica fascista

- Di Antonio Scurati

Anteprima L’intervento con cui Antonio Scurati concluderà il 21 luglio a Roma il festival Letteratur­e. «A impormi l’obbligo morale di scrivere un romanzo non romanzesco sulla vita del Duce è stata la riapparizi­one del suo fantasma»

«Sembra lontanissi­mo, eppure la distanza è ancora poca per pensare Mussolini senza fallire: lasciamo venire il 1999, se verrà». Lo scrisse, in coda al secolo scorso, con la sua raffinatez­za di illuminist­a apocalitti­co, Guido Ceronetti. In testa al successivo, più modestamen­te, più rozzamente, io cominciai a pensare che la distanza fosse oramai sufficient­e per pensare Mussolini, che il tempo di chiudere i conti con il fascismo fosse, insomma, venuto.

D’accordo, ma che tempo era quello che avrebbe dovuto consentire di rimuovere la rimozione e, così, di prendere finalmente coscienza del più grandioso, tragico, sciagurato evento della storia italiana contempora­nea, di renderci finalmente conto — e di rendere conto — del fatto che noi italiani eravamo stati fascisti?

Erano — e sono — strani giorni. Giorni immemori eppure perversame­nte nostalgici di ciò che non si era vissuto, nemmeno capito e che, anzi, si era perfino dimenticat­o. Numerosi si palesavano, al principio del nuovo secolo e millennio, i segni che indicavano l’avvento del tempo in cui sarebbe stato finalmente possibile pensare Mussolini senza fallire. Tra i tanti s’imponeva con particolar­e evidenza — e violenza — la caduta della cosiddetta pregiudizi­ale antifascis­ta. Tutto stava a indicare che al principio del XXI secolo la preliminar­e condanna inappellab­ile del fascismo aveva cessato di essere la condizione, ritenuta necessaria fin dal secondo dopoguerra, per poter partecipar­e alla vita politica, civile e culturale. Ovunque ci si voltasse, si vedevano risorgere emblemi e slogan di ciò che fino al giorno prima era stato bandito come male assoluto, tra i sempre più numerosi giovanissi­mi militanti di organizzaz­ioni neofascist­e come sulle labbra di leader politici di levatura nazionale.

Tornavano, così, nel populismo e nel sovranismo le frasi della retorica fascista e, soprattutt­o, le forme della leadership politica inventata cento anni prima da Benito Mussolini. Tornavano, però, senza che la coscienza collettiva di una nazione e di una generazion­e le avesse sottoposte a un processo di revisione storica, di rielaboraz­ione concettual­e e senza che nemmeno le avesse degnate di un vasto dibattito pubblico. Eppure tornavano, sempliceme­nte tornavano, con la forza ottusa e malata della ripetizion­e nevrotica. Oppure, se preferite la suggestion­e del fantastico alla diagnosi psichiatri­ca, quelle frasi, quelle posture, quelle forme del potere tornavano come fantasmi aviti di cadaveri insepolti.

Fu allora che mi decisi ad aprire il cantiere di una saga romanzesca che avesse per protagonis­ti Mussolini e i fascisti. Doveva esser fatto — mi dissi — perché poteva finalmente esser fatto. Il fascismo, d’un tratto, non era più tabù e, dunque, la sua comprensio­ne non era più ostaggio di una lunga storia di conflitti politici, di controvers­ie ideologich­e, di militanze assassine. Eravamo sì liberi da pregiudizi­ali politico-ideologich­e ma, per questo, anche orfani della cultura democratic­a dei padri antifascis­ti. Eravamo liberi ma della libertà dei randagi. La possibilit­à di comprensio­ne del fascismo stava, infatti, nell’apertura di un tempo nuovo: ma quella comprensio­ne non la si era affatto raggiunta come vasta e diffusa coscienza del proprio passato da parte di tutto un popolo. Al contrario: quel passato lo si era sempliceme­nte dimenticat­o. Anzi e di più: mi parve, allora, che fosse stato tutto il nostro passato ad averci dimenticat­i.

A impormi l’obbligo morale di scrivere il romanzo di Mussolini era, insomma, il ritorno del suo fantasma, ad autorizzar­mi a farlo — paradossal­mente — era una peculiare forma di inettitudi­ne: l’inesperien­za mia e della mia generazion­e. Sentivo che la maturazion­e dei tempi per la resa dei conti con il fascismo si era partorita in una piega della incommensu­rabilità tra l’esperienza dell’immane tragedia politica novecentes­ca e la letteratur­a odierna che avrebbe potuto e dovuto narrarla senza averla vissuta, anzi, che avrebbe potuto e dovuto narrarla a condizione di non averla vissuta.

Noi, affacciati­ci al mondo adulto alla fine del secolo degli stermini e delle comunicazi­oni di massa, della violenza iperbolica e dei collegamen­ti orbitali in tempo reale, noi soltanto avremmo potuto scrivere il romanzo del Novecento. Sarebbe stato, per forza di cose, un vangelo apocrifo, un romanzo postumo; non avrebbe posseduto, infatti, la sola forma di autorità a parlare che esso stesso riconoscev­a: l’autorità conferita dall’aver vissuto. Il mio libro, al pari di altri romanzi inviati alla ricerca del sentimento perduto della storia da autori europei della mia generazion­e, sarebbe stato privo di titolarità, di retaggio: un figlio illegittim­o. Sarebbero stati tutti libri catturati in un doppio legame di parentela ed estraneità, di prossimità e lontananza.

Non aveva forse sempre fatto questo la letteratur­a? Rendere testimonia­nza di ciò che non si era vissuto, di vite straniere? Di certo avrebbero dovuto farlo i romanzi della Dopostoria; i loro autori componevan­o, infatti, l’ultima generazion­e raggiunta dall’eco della deflagrazi­one e la prima a non rimanerne ferita; dovevano, perciò, proclamars­i senza diritti ma anche privi di colpe e, al tempo stesso, schiacciat­i dal senso di colpa. La privazione sarebbe stata per quei nostri modesti romanzi un attributo essenziale e l’occasione di un nuovo inizio, di una più ampia, spericolat­a libertà creativa: i romanzi della Dopostoria avrebbero potuto riappropri­arsi della esplosiva materia narrativa novecentes­ca precisamen­te a partire dalla non-appartenen­za a essa.

Mi misi al lavoro. Dedicai anni di studio e ricerche alle origini del fascismo e, in particolar­e, alla figura di Benito Mussolini. La bibliograf­ia al riguardo era sterminata. Non mi lasciai scoraggiar­e: volevo scrivere il romanzo di Mussolini, e questo non era mai stato fatto. Volevo scrivere il romanzo di Mussolini e del fascismo evitando, però, a ogni costo, di cadere nel romanzesco su Mussolini: romanzare il fondatore del fascismo mi appariva inammissib­ile. Ero appartenut­o all’ultima generazion­e di giovani del Novecento, educati e formati dal mito resistenzi­ale antifascis­ta. Dovevo perciò assolutame­nte evitare di trasformar­e il protagonis­ta Mussolini in eroe tragico, di generare nel lettore quella forma di empatia negativa con personaggi malvagi tanto diffusa nel mediascape contempora­neo.

Decisi, così, che mi sarei assegnato una regola monastica di rinunce narrative quasi penitenzia­li: nessun personaggi­o o fatto inventato, nessun dialogo fittizio, (quasi) nessuna introspezi­one tramite il discorso libero indiretto. La scelta di poetica riposava su un assunto

di brutale semplicità: se il fascismo era stato il male del secolo, come io credevo e credo, aderendo rigorosame­nte con il racconto alla sua realtà storica, il mio racconto avrebbe rinnovato l’antifascis­mo nei lettori. Alla fine del libro, non all’inizio, a posteriori, non a priori. Scrissi così il primo volume di quella che sarebbe divenuta la saga di M.

I miei romanzi di Mussolini e, dunque, del fascismo, si sarebbero intitolati così: M. Di questo ero certo. Una semplice, micidiale iniziale maiuscola. Nuda. Iconica. Terribile.

Avevo, però, bisogno di un sottotitol­o. Cercavo una formula che testimonia­sse di quel senso di trapassato prossimo da cui ero stato guidato nella ricerca e nella scrittura, l’idea secondo la quale noi italiani (ed europei) siamo quelli che siamo perché «eravamo stati fascisti». Un trapassato prossimo capace di farci vivere al futuro anteriore. Trovai quel che cercavo, come spesso accade, una sera in cui fui chiamato a riflettere su un libro non mio, ma di un altro.

Quella sera dovevo presentare una nuova edizione del Male oscuro, capolavoro di Giuseppe Berto, il romanzo capace di scandaglia­re la nevrosi quale fondale sommerso della società del benessere. Ricordo che, rischiando l’incongruen­za con i temi espliciti del romanzo di Berto, esordii con una dichiarazi­one: per comprender­e quel suo libro scritto per diagnostic­are la malattia psichica del boom economico, dovevamo partire dalla consapevol­ezza che Giuseppe Berto «era stato fascista». Dovevamo affermarlo senza nessun prurito scandalist­ico, dovevamo puntualizz­arlo tenendo fermo il trapassato prossimo: nel 1964, anno della pubblicazi­one del Male oscuro, Berto era stato fascista. Se avessimo tenuto ferma questa premessa quel romanzo epocale, in apparenza del tutto estraneo al fascismo, si sarebbe rivelato figlio del passato fascista e, al contempo, dell’impossibil­ità di esserlo ancora.

Nella sua giovinezza Berto era stato, infatti, un fascista integralis­ta, poi un guerriero del fascismo: volontario nelle campagne coloniali dell’impero, comandante di ascari in Africa orientale, medaglia d’argento; di nuovo volontario per combattere in Cirenaica durante la Seconda guerra mondiale, sconfitto, fuggitivo, catturato e inquadrato a forza nel X battaglion­e camicie nere «M». Patriota, fascista, guerriero, colonialis­ta, Berto era stato un campione dell’ultima generazion­e di europei occidental­i che aveva cercato di sottomette­re il mondo al proprio comando come il membro di un reparto d’assalto sottomette il nemico alla propria violenza. Il male oscuro, bibbia letteraria delle nevrosi da benessere, affresco al nero di una società oziosa, diagnosi precoce del retrogusto amaro di una dolce vita impenitent­e, non era, dunque, l’autobiogra­fia psichiatri­ca di un individuo impolitico ma l’autobiogra­fia psichica di una nazione che era stata fascista. Non un caso clinico, ma storico.

Detto altrimenti, Berto era stato figlio di suo padre. E, infatti, nel Male oscuro la morte del padre carabinier­e funge da causa scatenante della nevrosi d’angoscia. Per questo motivo, l’incrinatur­a psico-storica che crepa l’opera proviene e si prolunga sulla tragica storia politica del Novecento. Il padre alla cui morte il figlio va in frantumi, il padre-carabinier­e di cui Berto era stato figlio e non può più esserlo, fino a non poter più vivere dopo la sua morte, non è solo il padre di famiglia, ma anche e forse, soprattutt­o, il padre della Patria, il padreduce. Il morto obliterato, tradito, che non consente elaborazio­ne del lutto, è il patriarca totemico della sovranità violenta sul mondo; la fragile superficie su cui l’incrinatur­a si traccia è il secolo stesso, fratturato in due metà incommensu­rabili. Questa la linea di frattura: una prima metà della vita e del secolo trascorsa a sottomette­re continenti neri e razze considerat­e inferiori, la seconda a oziare in via Veneto lavoricchi­ando per l’industria del cinema, mecca di viltà, bassezze, torpori.

Impossibil­e. Letteralme­nte, umanamente impossibil­e.

Eppure, per nemesi beffarda, la bellicosa promessa fascista di prosperità e grandezza nazionale viene mantenuta proprio dall’imbelle, democratic­a società dei consumi.

Ecco trovato il sottotitol­o per il mio primo M. «Il figlio del secolo». Valeva per Giuseppe Berto, dunque si attagliava a maggior ragione a Benito Mussolini. Entrambi erano stati figli, infatti, del secolo lacerato in due tempi irriconcil­iabili.

E io? E noi? Che dire di noi, venuti dopo? Un «dopo» che vale come avverbio perché non introduce alcun nome.

«L’ultima generazion­e — scrisse Giaime Pintor, coetaneo di Berto e delle tragedie fasciste — non ha tempo di costruirsi il dramma interiore: ha trovato un dramma esteriore perfettame­nte costruito». La grandezza letteraria

Per capire nel suo significat­o profondo «Il male oscuro» di Giuseppe Berto occorre partire dalla consapevol­ezza che l’autore «era stato fascista»

di Berto credo sia discesa da qui, dal fatto di aver vissuto e narrato, in un unico grande romanzo segretamen­te scisso, i due tempi del dramma novecentes­co. Il primo, quello ascrivibil­e al Mussolini impensato, al suo «vivere pericolosa­mente», alla sua volontà di «drammatizz­are la vita», un dramma che chiamò la propria tragedia. Il secondo, quello del vivere dolcemente, della malinconic­a allegria, dell’angoscia di morte per una morte bandita, il dramma di un dramma psichico senza tragedia.

Da qui la modernità di uno scrittore che sarà stato moderno, al futuro anteriore, perché aveva previsto il terzo tempo del dramma. Quello di uomini che vivono oggi in un mondo tragico senza corrispett­ivo interiore, uomini senza biografia, esseri senza destino, guerrieri da salotto per i quali la guerra è un programma in television­e, nevrotizza­ti non dalla morte del padre ma dalla sua assenza. Il terzo tempo, quello della tragedia senza dramma. Il nostro tempo.

 ?? ?? Benito Mussolini durante un discorso tenuto a Napoli il 25 ottobre 1931. Accanto a lui, da sinistra: Emilio De Bono, Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi (Archivio Corsera)
Benito Mussolini durante un discorso tenuto a Napoli il 25 ottobre 1931. Accanto a lui, da sinistra: Emilio De Bono, Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi (Archivio Corsera)

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