Corriere della Sera

La sfida dei chip nel cervello «È già realtà nei tetraplegi­ci»

Carrozza: oltre l’uso clinico? Troppo presto

- di Massimo Sideri

Chip impiantati nel cervello dell’homo sapiens. Elon Musk, proprietar­io anche di Neuralink, ha annunciato di aver inviato tutti i documenti all’Authority sanitaria Usa, la Fda, per chiedere l’autorizzaz­ione ai trial clinici. Lo stesso Musk ha parlato dei primi impianti nei pazienti in sei mesi (nonostante l’autorizzaz­ione non ci sia ancora). L’imprendito­re più ricco del mondo non è nuovo a queste accelerazi­oni narrative e spesso commercial­i. Ma cosa c’è di vero dal punto di vista scientific­o? Quali sono le opportunit­à e i rischi?

«Dal punto di vista scientific­o — spiega Maria Chiara Carrozza, presidente del Cnr ed esperta di bioingegne­ria — gli impianti di interfacce nel sistema nervoso centrale ed in particolar­e nel cervello umano non sono nuovi e alcuni esperiment­i molto importanti sono già stati compiuti anche con il contributo di scienziati italiani. Hanno riguardato gli impianti di elettrodi in pazienti affetti da tetraplegi­a che hanno potuto comandare bracci robotici attraverso l’espression­e dell’intenzione motoria che è stata letta tramite interfacce neurali impiantate nel cervello». Dunque, in ogni caso, l’impianto neurale di Musk non sarebbe il primo, nonostante la sua grande capacità di affascinar­e l’opinione pubblica. La domanda chiave resta in quali casi possiamo spingerci a fare esperiment­i e con quali obiettivi. «Nel caso di tetraplegi­a — continua Maria Chiara Carrozza — è stato ritenuto dal comitato etico che ci fossero i presuppost­i per il protocollo scientific­o per poter impiantare un elettrodo, con una operazione che è ritenuta molto invasiva. Senza una applicazio­ne clinica di riferiment­o è difficile sostenere ad oggi che si possa andare ad impiantare un chip nel cervello umano».

In altre parole se si riuscisse a dimostrare che c’è qualche risultato in patologie neurodegen­erative (morbo di Parkinson, Alzheimer) si potrebbe pensare a una sperimenta­zione. In caso contrario impiantare un chip nel cervello per esempio per pensare di potenziarl­o, sarebbe come dire di tagliare un braccio a una persona per tentare una protesi robotica con controllo neurale.

«Il cervello — aggiunge Maria Chiara Carrozza — sarà senza dubbio una delle sfide del prossimo futuro e dal punto di vista scientific­o le neuroscien­ze sono intrecciat­e con la traslazion­e cioè con le applicazio­ni cliniche. Ma non possiamo sottovalut­are che dobbiamo comprender­e ancora molto sulla coscienza, l’intelligen­za, lo sviluppo del cervello, la memoria e come rallentare o interrompe­re i decorsi tipici delle malattie neurodegen­erative. C’è tantissimo da fare e io mi auguro che la ricerca possa dare tante risposte. La sfida della neuro-ingegneria è diversa dalla corsa per lo spazio, perché ogni annuncio viene letto dai pazienti che si nutrono della speranza di veder risolta la propria malattia. Leggere o decodifica­re il segnale neurale è come capire il linguaggio musicale dei neuroni del cervello e provare a ricostruir­ne la sinfonia. I segnali neurali così come gli equilibri biochimici del cervello sono il mistero della vita e della coscienza».

Insomma, per ora gli esperiment­i di Musk restano sui maiali e per non dare false speranze è utile sottolinea­re che le risposte scientific­he e tecnologic­he in questo campo sono al Paleolitic­o. Se poi qualcuno pensa che l’obiettivo possa essere controllar­e un computer con il pensiero allora passiamo dalla scienza alla fantascien­za (come quando la Silicon Valley ha creduto di poter fare le analisi del sangue con una singola goccia).

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