Corriere della Sera

DISGRAZIE, L’ESEMPIO DI UN

- di don Antonio Mazzi PADRE

Erano le due della notte. «Papà ci vieni a prendere?». Il papà non arrivò. Un treno falciò le due ragazze che camminavan­o lungo la strada in attesa. Di chi è la colpa? La gente in testa ha la solita ipotesi: ragazze in giro di notte, papà poco presenti, discoteche o peggio, la velocità.

Io ho visto il papà. Sono stato insieme a lui dieci minuti. L’ho guardato bene in faccia. Per me è un eroe per tre motivi contrari a quelli delle opinioni della gente. Non essere andato, ma anzi sentirsi contento perché sapeva dove erano, perché avevano telefonato, e perché erano «normali» (dalla voce). Il perché non sia arrivato, il perché della «falciatura delle ragazze», e perché a lui … non ne abbiamo parlato, invece, mi disse: «Devo fare un’associazio­ne per aiutare chi è nelle mie condizioni e per convincere tutti a leggere la vita diversamen­te».

Quel padre, per la gente quasi assente e disinteres­sato, per me, che l’ho ascoltato per dieci minuti, è un eroe. Ho stretto le mani; l’ho abbracciat­o e ho sentito quello che non si può descrivere. Nessun senso di disperazio­ne, un grande senso di responsabi­lità e la richiesta di un aiuto per fondare l’associazio­ne. Era domenica pomeriggio, eravamo in television­e.

Esplodere in pianti e in gesti dolorosi di solito è quello che accade a tutti, non per teatralità, ma perché è normale in questi momenti perdere il controllo di sé. Ci siamo guardati due o tre volte in diretta. Sembrava volesse dirmi «Tu, che sei prete, dimmi perché?» Invece non è vero. Pensandoci bene i suoi occhi erano due preghiere, due messaggi, due gesti da uomo vero cosciente fino in fondo del suo gesto di «leggerezza» e nel contempo sicuro della sua innocenza. Si, della sua innocenza!

Avevo le sue mani tra le mie, ma le sue erano meno tremanti delle mie e i suoi occhi erano più azzurri dei miei. L’associazio­ne è già partita, ma per me, quei dieci minuti prima di entrare in scena, sono ancora freschi di giornata. Dopo novanta e più anni ho capito che non ho capito niente della vita e le cosiddette disgrazie vanno lette, interpreta­te, vissute in modo che lui, padre, ha trovato e che io, prete, non ho ancora trovato.

La vita segue in silenzio i passi dei pellegrini, sia sulla via dritta come sugli incroci. Quella notte il gelo è caduto con lo stridore di sogni infranti.

C’è un’altra cosa dalla quale non sono capace di separarmi: le due ragazze che stanno camminando attorno alla notte non immaginand­o di danzare verso la morte. Fatemi chiedere:

Cos’è la giovinezza?

Cos’è la notte?

Cos’è la paternità?

Cos’è il coraggio?

Cos’è la vita?

Dice José Tolentino Mendonca: «Tutto è effimero: ieri ascoltavo la tua voce, oggi solo il vento».

Mi è saltato dentro la mente il primo Giobbe, quello paziente che non si lamenta mai, ma accetta da Dio la disgrazia. Avevo dubitato che esistesse un Giobbe che se avesse parlato la sua bocca l’avrebbe condannato e se fosse stato innocente i fatti lo avrebbero contraddet­to. Amavo molto di più il secondo Giobbe, quello polemico. Invece ecco qui il primo Giobbe che mi insegna quanto la sofferenza insegni all’uomo la gratuità della salvezza.

Accettate queste righe come messaggio e invito soprattutt­o rivolto ai padri.

Il dolore

«Papà ci vieni a prendere?». Il papà non arrivò. Un treno falciò le due ragazze che camminavan­o lungo la strada

La reazione

Nessun senso di disperazio­ne, grande senso di responsabi­lità e la richiesta di aiuto per fondare un’associazio­ne

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