«La mia battaglia per Manzoni Così l’ho tradotto negli Stati Uniti»
Michael F. Moore propone una nuova versione in inglese dei «Promessi sposi»
Quel ramo del lago di Como agli americani piace solo per le vacanze: l’ultima traduzione dei Promessi sposi risale al 1972. Ma forse ora non è più così. «Gli americani amano l’Italia ma la semplificano», nota Michael F. Moore; «chi meglio di Manzoni e del suo romanzo enciclopedico per dare loro un’idea più ampia della vostra letteratura?». La sua traduzione in inglese dei Promessi sposi è uscita a settembre (The Betrothed, Modern Library), in attesa che nel 2023 si celebrino i 150 anni dalla morte di Manzoni. Il volume contiene un’introduzione di Jhumpa Lahiri, altra illustre amante della nostra lingua, che definisce la versione di Moore «certosina».
«Ci lavoro dal 2004», conferma lui (tra gli autori che ha già tradotto, Primo Levi e Fabio Genovesi). Dal 2011, vivendo tra Bellagio e Milano, si è immerso nei luoghi dei Promessi sposi, «assorbendo le descrizioni liriche del paesaggio e la cadenza lombarda, indispensabile per rendere quella dei personaggi». In Manzoni, prosegue, «ho trovato tanti registri, non è mai monotono». Se all’autore toccò sciacquare i panni in Arno, Moore ha lavorato anni per rendere il suo inglese «adatto al libro: solo un inglese bello poteva rendere la bellezza del linguaggio manzoniano». Aulicismi e dizione britannica avrebbero reso il libro «tappezzeria»: meglio parole adatte all’Ottocento (col dizionario Webster che indica la data d’ingresso nell’uso comune) ma anche all’oggi. Un «buon inglese americano medio, letterario ma non artificiale» — spezzando i paragrafi e modificando la punteggiatura (l’inglese predilige frasi brevi) — funziona: non seppellisce la lirica e l’ironia di Manzoni.
Intanto, gli eventi di questi
ultimi due anni hanno reso il libro drammaticamente attuale: «Come negli anni Ottanta, con l’Aids, nei titoli di giornale tornò la parola “untore”, lo stesso è accaduto con il Covid». Con la pandemia il libro ha guadagnato ancora più rilevanza «e l’editore mi ha chiesto di rivedere i due capitoli sulla peste, fotografia di ciò che stavamo vivendo».
Questo, unito al buon momento della letteratura italiana negli Usa sulla scia di Elena Ferrante, dovrebbe avvicinare gli americani a Manzoni. Renzo è un intraprendente selfmade man che «prova a costruirsi il futuro da solo, una
dote che gli americani ammirano». Tuttavia, difficilmente empatizzerebbero per una storia di dolori da cui ci si salva solo con la fede e il perdono, specie oggi che sono divisi da forti rancori e tensioni.
Jhumpa Lahiri è una delle poche docenti che ha proposto il libro ai suoi studenti di Princeton. A colpirla «il tema attuale dello straniero, del forestiero costretto a lasciare casa per una nuova vita e perciò guardato con sospetto: un contrasto reso alternando come in una danza spazi interiori e piazze affollate». Temi presenti anche nei suoi libri: non a caso l’autrice de L’omonimo (Marcos y Marcos, 2003; poi Guanda, 2006) è affascinata dall’Innominato. Per lei il libro «contiene così tante lingue che è una specie di traduzione». Dunque lo insegnerebbe in un corso di scrittura creativa, sul tema dello straniero, o in uno di traduzione dall’italiano all’inglese, in cui studiare l’evoluzione della lingua dei traduttori in parallelo a quella inglese.
A differenza delle precedenti, troppo datate, osserva ancora, nella sua traduzione Moore è «empatico, si diverte: conosce così bene l’italiano, i luoghi e la storia da giocare con Manzoni». Senza una traduzione «buona, vivace, intelligente», un libro impegnativo come questo passerebbe per «il solito romanzo storico polveroso: è invece un romanzoterremoto, travolgente». La nuova versione «batte i pugni sul tavolo perché tradurlo solo con delicatezza non è possibile: lo porta in una direzione nuova con la sua energia». Per lei la scelta di insegnarlo nelle università dipende da come si vuole rappresentare la letteratura italiana: «I promessi sposi appartiene all’epoca del romanzo europeo ed è in conversazione con le opere di quel periodo, Walter Scott su tutti». Purtroppo, un abisso separa la reputazione del libro in Italia e negli Usa, dove l’Ottocento letterario non è praticamente studiato. Anche per lei la «strana sintonia» tra peste manzoniana e Covid potrebbe promuoverlo, «ma è molto di più e mi auguro che gli americani assaporino architettura, personaggi e dramma del libro».
Magari scoprendo perché, aggiunge Moore, «il romanzo è parte del Dna di tutti gli italiani». Tradurlo è stata «una sfida, perché negli Usa i libri di autori che non scrivono in inglese sono pochi». Ma una traduzione riuscita, come quella di Ferrante, richiama l’attenzione su tutta la letteratura italiana: «Anni fa lessi una recensione in cui l’autore diceva di aver dovuto scegliere fra Manzoni e Nievo: perché scegliere come se ci fossero solo due autori quando ce ne sono tanti da riscoprire?». A cominciare proprio da Alessandro Manzoni.
Collaborazioni
Jhumpa Lahiri firma l’introduzione: «Un’edizione certosina che dà energia»