Corriere della Sera

IL FASCISMO E IL CREMLINO

L’URSS MANTENNE A LUNGO BUONI RAPPORTI CON IL GOVERNO GUIDATO DA MUSSOLINI

- Di Paolo Mieli

Un saggio di Maria Teresa Giusti, in uscita dal Mulino, sul tema delle relazioni diplomatic­he tra Roma e Mosca durante il Ventennio. L’ambasciato­re sovietico Jurenëv incontrò il Duce poco tempo dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti

Irapporti tra l’Italia fascista e l’Unione Sovietica comunista tra il 1922 e il 1939 furono molto più intensi e cordiali di quanto ci si potrebbe immaginare. In particolar­e, tra il 1929 e il 1934. Tra l’Italia di Mussolini e l’Urss di Stalin fu addirittur­a stipulato (il 2 settembre 1933) un trattato di non aggression­e, amicizia e neutralità. Questi scambi proficui — scrive Maria Teresa Giusti in Relazioni pericolose. Italia fascista e Russia comunista di imminente pubblicazi­one per i tipi del Mulino — si verificaro­no a dispetto di «contraddiz­ioni inevitabil­i, vista l’inconcilia­bilità tra i due regimi». Ma tali contraddiz­ioni furono «abilmente e consapevol­mente celate da Roma e da Mosca, in nome degli interessi comuni». Interessi comuni ai quali si aggiunse però qualcosa in più: «L’odio senza appello per le democrazie liberali e per il parlamenta­rismo». E di conseguenz­a «gli atteggiame­nti negativi manifestat­i verso i regimi presso i quali paradossal­mente cercavano credito e legittimaz­ione».

Un tema, questo, che aveva già affascinat­o Rosaria Quartararo con Italia-Urss 1917-1941 (Esi), Giorgio Petracchi in La Russia rivoluzion­aria nella politica italiana. Le relazioni italosovie­tiche 1917-1925 (Laterza) e Matteo Pizzigallo in Mediterran­eo e Russia nella politica italiana (1922-1924) (Giuffrè). Luciano Zani nel saggio dedicato alle «rivoluzion­i antagonist­e», quella bolscevica e quella fascista, pubblicato in un volume curato da Emilio Gentile, Modernità totalitari­a. Il fascismo italiano (Laterza) — aveva preso nota delle curiose «inaspettat­e simmetrie» tra lo Stato comunista e quello fascista.

Fin dal 1922 Mussolini lascia trapelare la volontà di riconoscer­e lo Stato sovietico. Puntava — scrive Giusti — a reinserire la Russia comunista nella comunità internazio­nale «in modo che essa potesse appoggiarl­o nello sforzo di controbila­nciare il controllo di Francia e Gran Bretagna nel Mediterran­eo e in Europa orientale». Particolar­mente «in quell’area lasciata sguarnita dal crollo dell’impero austro-ungarico». Mussolini condividev­a questa sorta di pragmatism­o con Dino Grandi e Giuseppe Bottai. I quali lo incoraggia­vano a tener distinto l’aspetto ideologico dello Stato sovietico dai vantaggi che la Russia poteva portare sotto il profilo pratico. In qualche realtà neanche lo scoppio della Seconda guerra mondiale (1939) e l’ingresso dell’Italia nel conflitto (1940) interruppe questi rapporti. L’Italia fascista fornì know-how ai sovietici fino al 1941 quando la Germania hitleriana invase l’Urss. Del resto, peccò di ingenuità lo stesso Stalin se si considera che l’ultimo treno merci dall’Urss, carico di materie prime per la Germania, attraversò il confine sovietico nella notte tra il 21 e il 22 giugno del 1941. Cioè l’immediata vigilia dell’attacco nazista.

Cosa pensavano i comunisti russi dell’Italia dei primi anni Venti? Criticavan­o aspramente i socialisti italiani, «ritenuti incapaci di fare alcunché». Fra i liberali salvavano solo Giovanni Giolitti. Sulla leadership fascista avevano una discreta consideraz­ione di Mussolini ma ritenevano che fosse «circondato da incapaci e da profittato­ri». Giudicavan­o la nostra politica estera asservita all’Inghilterr­a (in particolar­e Carlo Sforza). Quell’Inghilterr­a che sarà la prima al mondo a riconoscer­e il governo dei soviet «battendo di pochi giorni l’Italia di Mussolini». E risulta che il premier britannico James Ramsay MacDonald avesse provato a coordinars­i con il governo italiano suggerendo l’invio non già di ambasciato­ri ma solo di incaricati di affari. Ma probabilme­nte si trattava di un tentativo inglese di rallentare le operazioni per dare al proprio Paese l’opportunit­à di muoversi per primo. Mossa che fu annunciata con grande enfasi dalla «Pravda», organo ufficiale del Pcus, la mattina del 6 febbraio 1924.

L’Italia (liberale), pur senza riconoscer­la, aveva già firmato un importante accordo commercial­e con l’Urss nel dicembre 1921, dieci mesi prima della marcia su Roma. Ma i contatti risalivano al marzo del 1920, quando il rappresent­ante russo a Roma Vodovozov accompagnò a Copenaghen — nelle vesti di interprete — una delegazion­e dei socialisti guidata da Nicola Bombacci (di lì a qualche mese tra i fondatori del Partito comunista d’Italia) che avrebbe dovuto incontrare i sovietici. Prima di lasciare l’Italia Vodovozov aveva incontrato Francesco Saverio Nitti assieme a Salvatore Contarini (l’uomo che nel 1909 aveva organizzat­o la visita in Italia dello zar Nicola II). I due lo pregarono di informare la delegazion­e russa a Copenaghen della nostra disponibil­ità a ristabilir­e rapporti politici ed economici con Mosca. Lenin accolse con favore questa offerta e a gennaio del 1921 nominò un altro rappresent­ante a Roma: Vaslav Vorovskij. Il quale entrò immediatam­ente in dissidio con Vodovozov (da lui considerat­o un informator­e del Komintern) e ne chiese la rimozione.

Vorovskij ottenne dal ministro degli Esteri del suo paese, Georgij Cicerin, i pieni poteri per condurre la trattativa sull’accordo commercial­e preliminar­e con l’Italia firmato il 26 dicembre del 1921 — ma concluso nell’autunno del 1923 e ratificato nel febbraio del 1924 — con il quale riprendeva­no i rapporti commercial­i ed economici tra i due Paesi. Se si osservano queste date ci si rende conto di come i sovietici consideras­sero irrilevant­e il fatto che nel frattempo erano giunti al potere i fascisti di Mussolini (ottobre 1922).

Ma non tutto filò liscio. Tra la fine del 1922 e i primi mesi del 1923 — ricostruis­ce Maria Teresa Giusti — si verificò un inasprimen­to dei rapporti italo-sovietici «causato dalle rivelazion­i sui continui tentativi del Komintern di interferir­e negli affari italiani attraverso l’azione del Partito socialista e del neonato Pcd’I». Oltreché dalla repression­e anticomuni­sta intrapresa dal regime. Malgrado il «promettent­e incontro» tra un rappresent­ante russo e Mussolini dei primi di dicembre 1922, l’«Avanti!» il 29 di quello stesso mese aveva pubblicato un manifesto provenient­e dal Komintern che inneggiava alla «resistenza contro il fascismo». Furono subito arrestati alcuni dirigenti comunisti, tra cui il fondatore del partito, Amadeo Bordiga, trovato in possesso del manifesto del Komintern. Fu poi sospesa l’attività della società Lloyd Triestino di navigazion­e in Russia, bloccata l’esportazio­ne di merci russe in Italia con successivo sequestro.

Vorovskij perse le staffe e scrisse al Cremlino avvertendo­li che qualunque «stupido incidente» avrebbe compromess­o i negoziati a dispetto anche delle buone intenzioni di Mussolini. Quindi riferendos­i al sequestro in casa di Bor

diga del proclama del Komintern concludeva «l’idiozia dei nostri cari compagni non ha confini». Poi il delegato russo in Italia — in contrasto con Anton M. Heller delegato del Komintern in Italia — usò parole sprezzanti nei confronti dei comunisti italiani accusandol­i di essere deboli e di agire «lentamente e con stanchezza».

Vorovskij fu allora convocato da Mussolini: provò a convincerl­o che il Komintern e il vertice del partito in Russia erano cose separate. Mussolini finse di credergli forse perché sapeva che Lenin aveva avuto un malore (sarebbe morto nel gennaio del 1924) e immaginava quei conflitti interni fossero condiziona­ti dalla lotta per la succession­e. Comunque, nel febbraio del 1923 Vorovskij si mostrò preoccupat­o dell’azione del Komintern in Italia. «Se noi riuscissim­o a trovare un modus vivendi con Mussolini e a firmare con lui un accordo», scrisse a Maksim Litvinov, benvoluto da Stalin e vice di Cicerin (destinato tra l’altro ad essere nel 1930 il suo successore), «le qualità personali di Mussolini nonché gli interessi del nazionalis­mo italiano farebbero sì che nel caso in cui in qualsiasi altro Paese dovesse spuntare l’idea di intervenir­e e combattere contro il bolscevism­o l’Italia sarebbe l’ultima ad aderire a questo movimento». A Vorovskij fu consentito, da Mosca, di spingersi oltre. Prese contatto con dirigenti del Partito comunista per convincerl­i della «necessità» per l’Urss di stipulare «un accordo ufficioso con il governo fascista sui limiti e sulle forme della propaganda da diffondere da entrambe le parti». E ottenne un loro assenso di massima.

Ma, a sorpresa il 10 maggio del 1923, Vorovskij fu ucciso da un ufficiale della guardia bianca a Losanna. Al suo posto in luglio fu nominato Nikolaj Jordanskij. Mussolini temette che si dovesse ricomincia­re daccapo.

Ma non fu così. A sorpresa nel novembre del 1923 Nicola Bombacci (che vent’anni dopo, lasciato il Partito comunista, seguirà Mussolini a Salò per essere infine, il 28 aprile 1945, fucilato dai partigiani a Dongo) pronunciò un discorso in Parlamento per cantare le lodi di un riconoscim­ento italiano della Russia bolscevica. «Non è chiaro», scrive Giusti, «se il discorso fosse una sua iniziativa oppure se fosse stato imbeccato da Jordanskij per sondare il clima e trasmetter­e all’Aula parlamenta­re i propositi di Mosca verso l’Italia». Ma il Pcd’I seguì Bombacci e il 5 dicembre del 1923 diede alle stampe un comunicato in cui sosteneva la necessità di procedere a quel reciproco riconoscim­ento allo scopo di difendere gli interessi del proletaria­to russo. Grande fu lo scandalo tra i partiti antifascis­ti. Anche perché le conseguenz­e di quel riconoscim­ento furono per certi versi sorprenden­ti.

Clamoroso è ad esempio il caso di come i comunisti russi pochi mesi dopo la morte di Lenin furono (o si sentirono) costretti a «prendere atto» senza batter ciglio del rapimento e dell’uccisione di Giacomo Matteotti. Il 14 marzo del 1924 Konstantin Jurenëv, neorappres­entante plenipoten­ziario dell’Urss in Italia, si disse «felice» di inaugurare «senza dubbio» una «nuova era nelle relazioni italosovie­tiche». Due mesi dopo Mussolini gli annunciò che lo avrebbe invitato a colazione. E quando il 10 giugno venne rapito Matteotti, Jurenëv si guardò bene dall’annullare quell’appuntamen­to. Qualche esponente del Partito comunista — non sappiamo chi — gli segnalò l’inopportun­ità di quel genere di incontro. Ma lui reagì con un’alzata di spalle. L’8 luglio scrisse a Georgij Cicerin, commissari­o agli Esteri sovietico: «Oggi ci ha fatto visita un compagno del posto chiedendom­i se il riceviment­o ci sarà lo stesso; quando glielo ho confermato si è rabbuiato in viso». Poi aggiunse: «Consideran­do la possibilit­à che questi “riferisse ai superiori”, gli ho ripetuto ancora una volta che la situazione lo impone e non potevo evitare quell’impegno».

SSegnali

Fin dal 1922, quando divenne capo del governo, Mussolini lasciò trapelare la sua intenzione di riconoscer­e lo Stato sovietico

Contraddiz­ioni

Non di rado gli interessi statali dell’Urss si trovarono in contrasto con la linea politica nettamente antifascis­ta dei comunisti italiani

embra, scrive Maria Teresa Giusti «che la scomparsa di Matteotti non fosse una questione di tale importanza da dover interrompe­re o compromett­ere la recente ufficiale ripresa delle relazioni italo-sovietiche». La conferma di quella colazione fu decisa, come hanno scritto Mihail Geller e Aleksandr Nekric in Storia dell’Urss dal 1917 a oggi (Rizzoli), malgrado la percezione dell’evidente imbarazzo che una posizione di indifferen­za dell’Unione Sovietica di fronte a quell’orribile delitto avrebbe causato all’immagine dello Stato socialista. E nonostante le proteste sia della sinistra sia dei liberali.

Jurenëv invia a Cicerin diverse relazioni per descriverg­li la situazione politica italiana in quel preciso frangente. «La debolezza dei gruppi e dei partiti politici, la loro incapacità di approfitta­re della situazione politica vantaggios­a», scriveva l’ambasciato­re il 17 giugno, «hanno in un certo senso tranquilli­zzato Mussolini». Le manifestaz­ioni antifascis­te in Francia avevano in un certo senso avvantaggi­ato il dittatore. Difatti la stampa fascista era scesa in campo sostenendo che «il caso Matteotti è una questione che riguarda solo gli italiani e che ogni vero patriota ha il compito di difendere la propria nazione respingend­o gli attacchi di insolenti socialisti e dei governi di Paesi stranieri». In un rapporto successivo (18 luglio) Jurenëv prevedeva una sorta di stabilizza­zione del fascismo.

Certo, la stampa russa (i settimanal­i «Ogonëk» e «Prozektor», quest’ultimo allegato alla «Pravda») descriveva Mussolini come carnefice e Matteotti come vittima. Ma l’ambasciato­re non indietregg­iava. La diplomazia russa e lo stesso Cicerin non facevano alcun affidament­o sull’azione dei comunisti italiani giudicati «incapaci e a tratti pericolosi per le loro azioni di propaganda antifascis­ta legata al Komintern». Del resto, prosegue Giusti, il Partito comunista d’Italia (Pcd’I) «si trovava in una posizione a dir poco scomoda e ambigua». Il Partito comunista era perseguita­to all’interno dal regime che all’esterno trattava con l’Urss per la ripresa delle relazioni politiche e commercial­i. Mussolini seppe approfitta­re di questa ambiguità e chiese insistente­mente al Commissari­ato agli Esteri russo di fermare l’azione di propaganda antifascis­ta promossa dal Komintern e dai partiti della sinistra italiana. Il suo scopo evidente era quello di creare malumori tra l’Internazio­nale comunista e il ministero degli Esteri nonché di scompagina­re le forze dell’opposizion­e. E fu (purtroppo) coronato da successo.

 ?? ?? (il Mulino, pagine 354, 32). Nata a L’Aquila, Maria Teresa Giusti è docente ordinaria di Storia sociale e di Storia contempora­nea presso l’Università di Chieti-Pescara. Tra i suoi libri: La campagna di Russia (il Mulino, 2016);
I prigionier­i italiani in Russia (il Mulino, 2003)
(il Mulino, pagine 354, 32). Nata a L’Aquila, Maria Teresa Giusti è docente ordinaria di Storia sociale e di Storia contempora­nea presso l’Università di Chieti-Pescara. Tra i suoi libri: La campagna di Russia (il Mulino, 2016); I prigionier­i italiani in Russia (il Mulino, 2003)
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L’autrice Esce in libreria venerdì 31 marzo il saggio di Maria Teresa Giusti (nella foto qui sopra) Relazioni pericolose. Italia fascista e Russia comunista
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Da sinistra: il ministro degli Esteri dell’Unione Sovietica, Georgij Cicerin (1872-1936), e il vice Maksim Litvinov (18761951) in una foto degli anni Venti. Cicerin fu ministro dal 1923 al 1930, quando al suo posto venne nominato proprio Litvinov, che rimase in carica fino al maggio 1939. Il successore di Litvinov fu Vjaceslav Molotov (1890- 1986)
Ministri Da sinistra: il ministro degli Esteri dell’Unione Sovietica, Georgij Cicerin (1872-1936), e il vice Maksim Litvinov (18761951) in una foto degli anni Venti. Cicerin fu ministro dal 1923 al 1930, quando al suo posto venne nominato proprio Litvinov, che rimase in carica fino al maggio 1939. Il successore di Litvinov fu Vjaceslav Molotov (1890- 1986)

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