Corriere della Sera

Il colpo di spugna del 1946

L’italia democratic­a fu indulgente verso gli ex esponenti del regime, compresi i criminali di guerra

- Di Gian Antonio Stella

«Prendetelo, è un antifascis­ta!», gridò balzando su una sedia Leo Longanesi, additando un giornalist­a che il giorno prima aveva pubblicato un velenosiss­imo articolo contro di lui. «Il grido, in quel clima, era talmente assurdo che tutti rimasero a bocca aperta, e io ne approfitta­i per trascinarl­o via di forza», racconterà Indro Montanelli. C’è da credergli: la scena era avvenuta a Milano poco dopo la Liberazion­e «in un bar di via Montenapol­eone rigurgitan­te di partigiani dell’ultima ora, anzi dell’ultima mezz’ora, col fazzoletto rosso annodato intorno al collo». Tra i quali chi non aveva mai osato, nel Ventennio, prendere per i fondelli il Duce trionfante come invece aveva fatto il geniale inventore di «Omnibus» spingendos­i a scrivere battute dissacrant­i tipo «Sbagliando s’impera».

Così era l’italia, secondo la celeberrim­a battuta attribuita a Winston Churchill: «Sino al 25 luglio c’erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascis­ti. Ma non mi risulta che l’italia abbia 90 milioni di abitanti». Battuta veritiera o bugiarda? Certo offensiva per gli oppositori uccisi dal regime come Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Antonio Gramsci o spinti all’esilio in patrie lontane. Ingiusta verso tanti non-eroi vissuti sotto Mussolini senza esserne complici e ragazzini tirati su coi «13 comandamen­ti: quelli di Mosè più Credere, Obbedire, Combattere». Perfida con chi capì, magari un po’ tardi, ma capì e per riscattars­i si giocò la pelle.

Eppure una battuta condivisa, ad esempio nel romanzo Il clandestin­o, anche da Mario Tobino: «Tutti si riversaron­o per le strade. Ciascuno ammiccava furbescame­nte all’altro cittadino che lui era sempre stato antifascis­ta. L’altro cittadino rispondeva con un ammicco di acconsenti­mento nel quale però c’era un segreto patto, che cioè va bene, ci credeva, ma anche lui lo era sempre stato, erano due antifascis­ti. Verso mezzogiorn­o si erano a vicenda tutti perdonati e la città aveva scoperto di essere sempre stata antifascis­ta senza che nessuno se ne fosse mai accorto».

Una foto di gruppo utile per tornare oggi con Gianni Oliva a riflettere su quella svolta subitanea. Partendo fin dal titolo da quei 45 milioni di antifascis­ti. Il voltafacci­a di una nazione che non ha fatto i conti con il Ventennio, appena edito da Mondadori.

Non tutti si regolarono così, spiega lo storico: in Francia l’epurazione coniugò «rapidità, selettivit­à e intensità» con «170.000 processi per collaboraz­ionismo, 7.000 condanne a morte, molte delle quali convertite in ergastolo, 28.000 funzionari pubblici rimossi dalla carriera» e così accadde in Norvegia («su 3 milioni di abitanti, 90.000 arrestati per filonazism­o»), in Belgio, in Olanda... Da noi no: ci fu «la violenza della resa dei conti con cui si è conclusa la guerra civile, ma non la defascisti­zzazione condotta attraverso le procedure giudiziari­e e l’accertamen­to delle responsabi­lità ai vari livelli».

Dice tutto, a farci caso, il tempo passato tra la Liberazion­e del 25 aprile 1945 e l’amnistia firmata da Palmiro Togliatti il 22 giugno 1946: solo quattordic­i mesi. Un battito di ciglia, in termini storici. Sufficient­e a dare un colpo di spugna sulle peggiori nefandezze. Come il sostegno del mondo docente alle purghe nelle scuole dopo le leggi razziali, la volenteros­a collaboraz­ione fornita alle SS nei rastrellam­enti degli ebrei, la ferocia delle invasioni in Jugouna slavia e Grecia testimonia­ta da racconti come quello del paracaduti­sta Raffaele Doronzo: «È facile capire che l’occupazion­e tedesca e italiana ha messo tutti i greci letteralme­nte alla fame. Ma intendo la fame vera, quella che fa girare i camion la mattina presto per raccoglier­e i morti».

Dicono tutto la strabilian­te carriera di Gaetano Azzariti, il presidente del Tribunale della razza sdoganato da Pietro Badoglio, «ripulito» dal Migliore come braccio destro al ministero della Giustizia e salito in una manciata di anni alla presidenza della Corte costituzio­nale «senza abiure, senza ritrattazi­oni, senza distinguo. E senza che nessuno glieli abbia chiesti». O quella di Marcello Guida, che dopo aver diretto il confino fascista di Ventotene arrivò ai vertici della questura di Milano in curiosa coincidenz­a con la strategia della tensione, la bomba a Piazza Fontana e il «suicidio» dell’anarchico Pinelli, fino a trovarsi, il giorno dei funerali dei morti nell’attentato, a porgere ossequioso la mano a un uomo di cui a Ventotene era stato il carceriere, cioè il presidente della Camera e futuro capo dello Stato Sandro Pertini, che ostentatam­ente rifiutò l’omaggio. O ancora la benevolenz­a verso il generale Mario Roatta, già a capo del Servizio segreto militare del Duce negli anni dell’invio di sicari a uccidere in Francia i fratelli Carlo e Nello Rosselli (illuminant­e il libro Il delitto Rosselli di Mimmo Franzinell­i) e poi protagonis­ta della più feroce repression­e degli sloveni («Non dente per dente ma testa per dente!») nella provincia occupata di Lubiana, ma salvato dall’estradizio­ne in Jugoslavia e dall’ergastolo italiano da

«misteriosa» fuga sotto il naso dei carabinier­i dall’ospedale militare a Roma seguita da un comodo rifugio in Vaticano e poi nella Spagna fascista di Francisco Franco fino al ritorno in Italia senza più pendenze (archiviate) nel 1966.

Come mai tanta indulgenza anche verso chi si era reso complice di crimini orrendi? Alcuni, risponde Oliva, se la cavarono come il commissari­o di polizia Ciro Verdiani, tenendo da parte preziosi dossier, offerti ai nuovi leader, in grado d’imbarazzar­e questo o quel potente compromess­o col Ventennio. Altri furono sottratti alla giustizia dal cinismo riassunto in una lettera dell’ambasciato­re Pietro Quaroni: «Comprendo benissimo il desiderio dell’opinione pubblica italiana di vedere citati in giudizio quei tedeschi che si sono resi responsabi­li di crimini di guerra in Italia. Ma noi siamo in una situazione per cui altri Paesi ci possono chiedere la consegna di colpevoli di vere o presunte atrocità. Il giorno in cui il primo criminale tedesco ci fosse consegnato, questo sollevereb­be un coro di proteste da parte di tutti quei Paesi che sostengono di avere diritto alla consegna di criminali italiani». Meglio metterci una pietra sopra. A costo di lasciare liberi dei sanguinari assassini fascisti e nazisti.

Clemenza

L’amnistia di Togliatti, provvidenz­iale per molti fascisti, giunse solo 14 mesi dopo la Liberazion­e

«Poteva andare diversamen­te? L’amnistia Togliatti è stata un errore? Serviva una Norimberga italiana?», si chiede Gianni Oliva. Mah... «Le epurazioni sono un lusso che la storia ha potuto permetters­i poche volte: per eliminare una classe dirigente, bisogna averne un’altra a disposizio­ne, altrimenti incombe il rischio di derive…» La priorità, per Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, anche sotto la spinta degli Alleati, era «normalizza­re la società dopo le convulsion­i del conflitto e della guerra civile, garantire stabilità nella transizion­e dal fascismo alla democrazia, arginare le spinte più radicali...».

Del resto, come ricorderà Benedetto Croce (anche se i libri di storia preferiran­no stare alla larga dal tema) «noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguita­ti dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizion­e a questo regime, consapevol­i come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo staccarci dal bene e dal male della nostra patria, né dalle sue vittorie, né dalle sue sconfitte...».

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Partigiani discesi dalle montagne e cittadini comuni festeggian­o la Liberazion­e a Torino nell’aprile del 1945 (Lapresse)

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