Barak torna in campo e prende le redini della protesta: «Mobilitiamoci tutti»
L’ex premier arringa i manifestanti contro Netanyahu
GERUSALEMME È stato l’ultimo dei premier israeliani a sfiorare il sogno della pace, ma anche il soldato più decorato della storia del Paese. Nella vita è stato più statista che politico, più bravo a governare che a raccogliere voti. Ha fondato due partiti fallimentari e si è ritirato ufficialmente dalla vita politica almeno tre volte dopo altrettante sconfitte. Ottantadue anni e non sentirli, Ehud Barak è tornato in campo: martedì sera si è presentato a sorpresa nella piazza del Parlamento di Gerusalemme, davanti alla folla eterogenea che da cinque giorni scende in piazza. Ha preso il microfono e ha spiegato come si fa a far cadere un governo.
Il suo cervello funziona con le categorie di un generale: pianificare, organizzare, condurre. «Ci vorrà una sequenza di massicce e crescenti manifestazioni. Attenzione, però, belle adunate con decine di migliaia di persone come questa di oggi non bastano. Bisogna coinvolgere le istituzioni del Paese: sindacati, università, organizzazioni studentesche, Comuni. Tutto dovrà culminare in uno sciopero generale che si trasformi in un assedio del Parlamento con decine di migliaia di tende 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Ci saranno alti e bassi, ci vorrà tempo, ma accadrà».
Oggi gli israeliani che contestano Netanyahu lo fanno ognuno per un motivo diverso. Ci sono quelli preoccupati della riforma giudiziaria che tarperebbe l’indipendenza della magistratura e così la qualità della democrazia. Ci sono i parenti degli ostaggi che vorrebbero i loro cari a casa. Ci sono i pacifisti che non vorrebbero la guerra e altri che la vorrebbero più feroce. E ci sono quelli che vorrebbero
Netanyahu sotto processo per corruzione. Ehud Barak ha usato il collante che conosce meglio, quello di un Israele che non lasciava indietro nessuno, che andava a liberare i concittadini ostaggi fino in Africa, liberava anche mille prigionieri per salvare un singolo soldato e puniva gli assassini di ebrei in ogni angolo del mondo.
«La nostra rabbia è giustificata — ha arringato la folla —. Vecchi e malati stanno soffocando nei tunnel di Hamas, giovani donne sono stuprate e bambini sono disperati. È chiaro a tutti che entrare a Rafah — l’ultima roccaforte di Hamas che però è anche rifugio di 1,5 milioni di palestinesi, ndr — avverrà solo tra qualche settimana e che per eliminare Hamas a Rafah sarà una questione di mesi. Fino
ad allora quasi tutti i sequestrati potrebbero tornare nelle bare. Coloro che li hanno abbandonati il 7 ottobre, sono pronti a sacrificarli ancora oggi sull’altare dell’illusione della vittoria totale».
Un discorso potente, diretto contro Netanyahu che ha raccolto applausi in piazza e, pochi minuti dopo, dal gabinetto di emergenza, anche il sostegno di Benny Gantz, il politico al momento più popolare di Israele. Rivolgendosi a Netanyahu in tv, Gantz ha detto che «ci vogliono elezioni anticipate a settembre». «Solo così potremo continuare i nostri sforzi militari e anche segnalare ai cittadini che avranno presto la possibilità di rinnovare la loro fiducia in noi».
Se Netanyahu dovesse accettare, il piano di Barak non sarà più necessario, altrimenti sarebbe lo stesso Gantz ad entrare nei cortei. A quel punto la loro leva principale non sarebbero neppure i cortei di Gerusalemme, ma la politica di Washington. Le vittime civili e la carestia causata da Israele a Gaza stanno spaccando l’elettorato del presidente Biden. Sono gli Usa a chiedere un cambio e se sarà prima del voto americano di novembre, meglio. Settembre? Perfetto.