Cinesi sfruttati e registri in nero I giudici dentro il gruppo Armani
Milano, l’accusa: «Non avrebbe impedito il caporalato». L’azienda: «Noi in regola»
La procura
«Cultura di impresa deficitaria sotto il profilo delle verifiche della filiera produttiva»
La società e lo stilista
Non sono indagati perché l’inchiesta non è penale, è una misura di prevenzione
La borsa di pelle è griffata originale Giorgio Armani, e può costare 1.800 euro, però la fanno i cinesi sfruttati in capannoni-dormitorio da cui esce a 75 euro per il committente ufficiale italiano fornitore poi di Armani: e la casa di moda lo sa, visto che un mese fa i carabinieri del Comando Tutela del Lavoro in uno di questi opifici cinesi hanno persino trovato un ispettore della «Giorgio Armani Operations spa» intento a fare il «controllo di qualità» dei prodotti. «Quel che emerge» dall’attività investigativa — osservano le giudici milanesi di prevenzione Paola
Pendino, Giulia Cucciniello e Matria Gaetana Rispoli nel disporre l’amministrazione giudiziaria della «Giorgio Armani Operations spa» (1.200 dipendenti sugli 8.700 dell’intero gruppo da 2,3 miliardi di euro di ricavi nel 2022) — è «una cultura di impresa gravemente deficitaria sotto il profilo del controllo, anche minimo, della filiera produttiva della quale la società si avvale anche a costo di instaurare stabili rapporti con soggetti dediti allo sfruttamento dei lavoratori». Critica respinta dall’azienda, che ribatte d’aver «da sempre attuato misure di controllo e di prevenzione atte a minimizzare abusi nella catena di fornitura», e promette che «collaborerà con la massima trasparenza per chiarire la propria posizione».
La società non è indagata, né lo è l’89enne stilista terzo uomo più ricco d’italia con una fortuna accreditata da Forbes in 11 miliardi di euro, perché non è una inchiesta penale, ma una misura di prevenzione: con essa il Tribunale, per «bonificare» i rapporti con tutti i fornitori, affianca per un anno il commercialista Piero Antonio Capitini ai (non azzerati) vertici dell’azienda, alla quale viene rimproverato di aver colposamente agevolato con la propria interessata inerzia il caporalato praticato su manodopera straniera irregolare da opifici cinesi in provincia di Milano, capannoni ai quali un fornitore ufficiale italiano di Armani («Manifatture Lombarde srl» di Pieve Emanuele) subappaltava in realtà la produzione di pelletteria griffata Armani.
Bella la prima parte in teoria, tra codice etico e divieto di subappalto. Peccato che società come «Manifatture Lombarde» non abbiano alcun reparto produzione, quindi debbano per forza esternalizzare la commessa ricevuta da Armani, e la affidino (senza contratti scritti) a opifici cinesi che sfruttano operai spesso irregolari, stipandoli in dormitori abusivi e insalubri accanto ai macchinari dai quali vengono rimosse le protezioni per accelerarne la resa produttiva. E sottopagandoli: molti lavoratori raccontano di essere pagati per quattro ore al giorno ufficiali ma di lavorarne dieci, e in effetti lo conferma sia il «registro nero», cioè un quaderno sequestrato in uno degli opifici con i numeri reali di ore lavorate, sia il calcolo dei consumi energetici pure di sera e nei festivi.
Ma la «Giorgio Armani Operations spa» lo sapeva? Per i pm Luisa Baima Bollone e Paolo Storari sì. Non solo perché l’unico «audit» che fece il 21 e 22 luglio 2020 sulla «Manifatture Lombarde», pur accertando ben 11 rilievi, «non accertò e riportò» proprio «l’unico requisito necessario ad ottemperare le obbligazioni commerciali sottoscritte, e cioè che l’appaltatrice non aveva un reparto produzione». Ma soprattutto perché i carabinieri il 15 febbraio 2024 nell’opificio cinese «Wu Cai Ju» a Rozzano trovarono proprio anche un dipendente della «Giorgio Armani Operations spa», N.M., che si qualificò come «ispettore controllo qualità del prodotto finito» per la società, lì una volta al mese da sei mesi: il che per le giudici rende «piuttosto sconcertante» che la società «sia rimasta inerte», senza rescindere il contratto o pretendere la verifica della filiera. Allora «a nulla valgono i codici etici e i modelli di controllo o le certificazioni di sostenibilità, quando, per raggiungere il maggior profitto al più basso costo possibile, a valle della catena si consente la creazione di un sistema produttivo basato su una produzione con forza lavoro in condizione di sfruttamento».