Mendini, dentro un mondo di arte e ironia
Apre oggi alla Triennale la retrospettiva su uno dei più poliedrici e sorprendenti protagonisti della creatività
Il mondo di Mendini. Mai definizione così semplice potrebbe essere più esaustiva per raccontare una delle personalità creative più complesse e sfaccettate che hanno attraversato gran parte dell’ultimo secolo. Non sappiamo se Io sono un drago. La vera storia di Alessandro Mendini, retrospettiva che inaugura oggi al Cubo della Triennale (in collaborazione con Fondation Cartier pour l’art contemporain e l’archivio Mendini, e la curatela di Fulvio
Irace) abbia l’ambizione di riuscirci grazie agli oltre 400 lavori esposti. Forse è impossibile. Di sicuro ciò che trarremo alla fine della visita è un’immagine diversa in cui il lato più noto di Mendini, colorato e ironico, è solo un lampo tra gli altri. Come indica il drago di un suo disegno-autoritratto, che dà il titolo alla mostra, idealmente scomposto in parti, una per ogni sua anima: architetto, designer, artista, grafico, poeta, artigiano e altre ancora.
Eppure, come precisano le figlie Elisa e Fulvia Mendini che ci guidano nella mostra, il tratto chiave che emergerà più di ogni altro è la sua vena artistica: «Ogni altro aspetto si riconduce qui. L’arte è il senso del suo progettare. Si è sempre avvicinato all’architettura e all’industria da artista, portando connessioni e una visione diversa». Ampia, a volte compulsiva, come si coglie dalla quantità e varietà di argomenti che il percorso affronta. Ma rimasta unica.
Senza farsi distrarre dalla celebre poltrona policroma Proust e dalla testa ispirata al cavatappi Alessandro M. messi all’ingresso, si incontra subito l’arte nella sua espressione più immediata: una serie di suoi ritratti e autoritratti. «In famiglia i prozii frequentavano gli artisti: li invitavano a casa e nostro padre fin da piccolo era abituato a vederli», raccontano le figlie. «La loro collezione di quadri, lui l’ha sempre dichiarato, è stata un incubatore del suo mondo espressivo».
Contrapposti, lungo tutta la parete di sinistra, i grandi mobili, molti mai esposti prima: «Nella mostra ce ne sono altri, ma questi sono i più importanti. Alcuni della stessa Fondation Cartier, altri sono nostri personali che usiamo abitualmente». Una decina, spettacolari per forme, finiture lucidissime e capacità espressiva «A nostro padre piacevano gli oggetti che in una casa entrano in dialogo e creano affinità» spiegano mostrando, verso la fine della navata, alcuni pezzi dalle sembianze di visi. «Mettere gli occhi o il naso agli oggetti era per lui un tema figurativo molto importante», dicono, davanti alla grande testa-scultura ispirata a Malevich.
Pochi, come si diceva, gli arredi. Ma quelli presenti sono emblematici delle influenze della società del periodo : «Era la cartina di tornasole di quello che succedeva nell’arte, che traduceva nei progetti», confermano, soffermandosi nella sezione dedicata al Radical. «Questa per esempio è una sedia fatta con le balle di fieno, creata nel pieno del fenomeno dell’arte povera».
La mostra non ha un andamento cronologico: le tematiche si intersecano. Cosi nei disegni, che ricorrono in più punti, come nelle stanzewunderkammer — una delle sue ossessioni — si fonde il racconto su fragilità e spiritualità, il suo tratto di Mendini più malinconico e meno noto.
A dare un’ulteriore visione della multiforme personalità mendiniana si è unito Philippe Starck, con un’installazione-omaggio dal titolo What? (collocata nell’impluvium, dal 16/4), completamente immateriale, come ci anticipa lui stesso. «Lo conobbi anni fa. Era una star e io ancora un nessuno, ma mi amava. E non so perché. Per me lui non era un corpo reale, ma una sensazione: quella sua voce, la testa grande con i due occhi spalancati, la silhouette», dice. «Ecco
Le figlie Elisa e Fulvia «Ha sempre affrontato le sfide di architettura e i progetti industriali con una visione artistica»
Il valore domestico «Esposti i grandi mobili, alcuni della Fondation Cartier, altri nostri che usiamo abitualmente»
perché ho voluto raccontarlo così, attraverso suoni e la sua voce rielaborata da un sound designer, fluttuante in una nuvola». Una rappresentazione che sintetizza un lato che per certi versi li accomuna: «Essere dei sognatori ma sempre con umorismo, permanentemente surreali». Come confermerà il congedo di Io sono il drago che, dopo averci sorpreso con pezzi come il tavolino-bara e la «Valigia per ultimo viaggio», saluta con un autoritratto di Mendini il cui fumetto ci dice “Ciao”. Come dire, arrivederci, nel suo mondo.