L’uomo che nell’81 colpì il reattore di Saddam Hussein «Blitz sulle centrali? Sarebbe un errore»
Il comandante Raz: meglio un cyberattacco
GERUSALEMME Andata a serbatoio pieno, ritorno con gli occhi sulla spia del carburante. Gli ingegneri dell’aviazione israeliana stavano sviluppando i sistemi per il rifornimento in volo, sarebbero stati pronti nel 1982, sarebbe stato troppo tardi. Così Ze’ev Raz, il comandante della squadriglia, è decollato alle 4 del pomeriggio del 7 giugno 1981, nello zaino un kit di pronto soccorso, in tasca mazzette di dinari iracheni. Perché Menachem Begin, il primo ministro che aveva ordinato la missione, calcolava che un paio non ce l’avrebbero fatta e se abbattuti sarebbero potuti finire prigionieri di Saddam Hussein. Invece tutti gli 8 piloti sono riatterrati in Israele e a rimetterci è stato il capo iracheno delle batterie anti-aree, eliminato dal dittatore per non aver protetto il reattore nucleare Osirak.
Da colonnello in pensione spiega che un militare sa di poter essere preso dal nemico. «Lo mettevamo in conto, come anche i soldati oggi». Diversa — dice — è la tragedia «delle donne, dei bambini degli anziani rapiti il 7 ottobre. Sono stati abbandonati dallo Stato quel giorno e ancora per tutti i 194 che gli ultimi tenuti a Gaza stanno passando da ostaggi». Fin dal 2020 fa parte dell’organizzazione di veterani che protesta contro il premier Benjamin Netanyahu e anche in queste ore — da aviatore che un centro atomico l’ha colpito — resta scettico sulla possibilità che la risposta israeliana possa bersagliare i siti nucleari iraniani. Com’era scettico una decina d’anni fa, quando Bibi ripeteva di esser vicino a dare l’ordine per il raid. «In Iraq si trattava di devastare un reattore, gli scienziati iraniani hanno invece sparso le centrifughe per arricchire l’uranio in vari laboratori, alcuni costruiti decine di metri sottoterra». È vero che allora Raz e i suoi volavano sugli F-16 e sganciarono in totale 16 tonnellate di esplosivo, mentre oggi l’operazione sarebbe affidata agli F-35: ma gli israeliani non hanno le bombe «bunker buster» necessarie per distruggere centri come Fordow. «Meglio un cyberattacco e preservare le alleanze internazionali».
Ogni sabato Ze’ev, 77 anni, continua a scendere in strada per chiedere le dimissioni di Bibi, com’è soprannominato. Un anno fa è stato anche interrogato dalla polizia, imbarazzata dall’aver convocato un eroe nazionale, per aver condiviso su Facebook un messaggio non suo che teorizzava l’uccisione di «un capo del governo che si assume poteri dittatoriali». Forse l’unico punto di intesa con Netanyahu è su quale sia la minaccia più grande: l’iran. La soluzione è opposta, dare uno Stato ai palestinesi: «Yitzhak Rabin all’inizio non voleva l’accordo. Però ha capito che era anche il modo di togliere a Teheran qualunque scusa, di mostrare che l’odio per Israele è parte dell’ideologia del regime».
Ricorda l’elogio funebre pronunciato da Moshe Dayan per Roy Rotenberg, la guardia del kibbutz Nahal Oz ucciso dagli arabi il 29 aprile del 1956, ventunenne, in un attacco oltre il confine. Nelle 258 parole c’è — se non il rispetto — il tentativo di comprendere le motivazioni di «chi ci odia». Soprattutto quello del generale dalla benda nera sull’occhio sinistro è un appello all’allerta permanente: «Questa è la nostra scelta — di essere pronti e armati, duri e tenaci — altrimenti la spada ci cadrà dalle mani e le nostre vite saranno troncate». Dice Ze’ev in un sussurro: «Il 7 ottobre ce ne siamo dimenticati».
Laboratori sparsi
Qui i laboratori sono sparsi e costruiti decine di metri sottoterra. Non abbiamo le «bunker buster», le bombe necessarie a distruggerli