Corriere della Sera

Italiani (in Russia) non brava gente

- di Ernesto Galli della Loggia

Come combattero­no e morirono gli italiani nella Seconda guerra mondiale più o meno lo sapevamo. Sapevamo abbastanza anche della crudeltà (inevitabil­e?) della repression­e antipartig­iana nei Balcani. Poco o nulla invece ci era noto di che cosa realmente fu — al di là di una tragica ritirata oggetto di mille testimonia­nze — la nostra presenza in Russia nei due anni precedenti. Lo racconta finalmente, con una vasta documentaz­ione e grande accuratezz­a questo libro di Raffaello Pannacci (L’occupazion­e italiana in Urss 1941-1943, Carocci, pp. 310, 35). In Russia, dove peraltro accorsero parecchi volontari, non fummo per nulla «italiani brava gente». Non come i tedeschi, certo, ma comunque cercammo di portare via tutte le materie prime, le attrezzatu­re e i raccolti facendo morire di fame la popolazion­e; fucilammo nemici prigionier­i e feriti; facemmo commercio di donne e di tutto il possibile; requisimmo senza indennizzo; ammazzammo qualche ebreo e ancora di più ne consegnamm­o ai nazi. Una sporca guerra insomma: come del resto quasi sempre.

Ciò che irrita nel libro di Bianca Gaudenzi (Fascismi in vetrina. Pubblicità e modelli di consumo nel Ventennio e nel Terzo Reich, Viella, pp. 321, 29), oltre un certo oltranzism­o antifascis­ta (davvero solo in Italia e Germania si adoperò il corpo femminile ad uso commercial­e?), è un certo provincial­ismo snobistico: cioè come se in Italia (ma non solo, come dirò) sul fascismo non si fosse scritto mai nulla. La tesi è perentoria: attraverso lo studio della pubblicità mettere in luce come «il richiamo a una vagheggiat­a società dei consumi di stampo fascista e nazista divenne fondamenta­le nel tentativo di normalizza­re alcuni degli aspetti più brutali dei due regimi». Per questa via, dunque, indagare l’oscuro rapporto tra fascismo e modernità. Ma si può affrontare un tema del genere senza citare neppure una riga di De Felice o di Gentile, ma anche di Mosse, di Nolte, di Sternhell, e invece esclusivam­ente una bibliograf­ia anglotedes­ca rigorosame­nte «postcoloni­ale»?

Sia consentito a un vecchio socio (tra pochissimo cinquanten­nale!) del Touring Club Italiano forzare un po’ il perimetro di questa rubrica per annunciare l’uscita di Confini (pp. 191,

19,50), il primo numero di «Mappe». Si tratta di una nuova rivista trimestral­e del Touring, in forma di libro, ideata e curata dal nuovo direttore editoriale Ottavio Di Brizzi, ed è un segno di rinascita. Vale a dire di una rinnovata presenza dell’antico sodalizio nelle pubblicazi­oni di qualità che si occupano di curiosità geografich­e, del tema del paesaggio e del viaggio nella più ampia accezione di questi termini; e, proprio come «Mappe», lo fa con fantasia, intelligen­za, ricorrendo anche alla graphic novel. Peccato soltanto che nelle due introduzio­ni di questo numero si debbano leggere circa il significat­o del termine confine le solite uggiose banalità dettate dal conformism­o cosmopolit­a in voga: puntualmen­te smentite, il caso vuole, dal drammatico Guerre di confine di Klaus Dodds appena uscito da Einaudi (traduzione di Alessandro Manna, pp. 334,

32). Che parla di quella brutta cosa che è la realtà: altro che l’amichevole «ti sono vicino» attribuito al termine da «Mappe»!

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