Dopo i migranti, i gay: quelle manipolazioni (premiate dai social) di chi fabbrica veleno
«Le vendite di Ken incinto battono tutti i record»: nei giorni scorsi mi sono imbattuto nell’indignazione social esplosa attorno alle immagini della nuova versione dello storico fidanzato di Barbie con folta barba e in dolce attesa. In realtà Mattel non ha mai prodotto un giocattolo del genere: si tratta di un fake, creato con l’intelligenza artificiale e fatto circolare dalla propaganda filorussa per aizzare il fastidio dei tradizionalisti. La rete abbonda di episodi simili, ma questo esemplifica bene il tipo di ossessione manipolatoria dei nuovi movimenti di estrema destra verso la cosiddetta «lobby gay», dentro e fuori l’europa.
In questo tempo di incertezze e paure le persone hanno ripreso a desiderare leader autoritari, che si presentino come impetuosi restauratori dell’ordine perduto. Accade nell’europa dell’est, ma i report del Parlamento europeo sistematicamente citano anche l’italia tra i Paesi membri che più destano preoccupazione per i diritti civili. Individuare dei nemici, esterni ma anche interni, da immolare sotto forma di soluzioni nitide e inesorabili al desiderio di rivalsa degli strati emotivi più reattivi e impauriti dell’elettorato, è una strategia tipica degli autoritarismi. Poco importa se questi nemici in realtà corrispondono alle fasce più deboli della popolazione, già di loro vessate da pregiudizi, vuoti legislativi e marginalità. Oltre alla disumanizzazione degli immigrati, i nuovi movimenti di estrema destra utilizzano come collante identitario l’ostilità verso la diversità sessuale e di genere, bollando gli sforzi di attivisti e associazioni Lgbt verso una società più giusta e inclusiva come «propaganda».
I discorsi urlati di Giorgia Meloni diventati virali in questi anni andavano esattamente in questa direzione: aggregare il consenso degli elettori più timorosi delle differenze puntando sul pericolo di colonizzazione gender, perdita dell’identità eterosessuale, patriarcale, cristiana. Normalmente questa retorica, in cui il potente si traveste da vittima, legittima sé stessa in nome della salvaguardia della famiglia e dei bambini. I più piccoli sono il jolly retorico che viene calato spesso e volentieri, per suggestionare senza bisogno di argomenti razionali e dati scientifici. «Giù le mani dai bambini!»: peccato che i conservatori abbiano sempre in mente bambini virtuali, feticci retorici funzionali al progetto di restrizione delle libertà, e mai i bambini reali con tutte le loro diversità. I bambini queer, non conformi, esistono, sono sempre esistiti. Io lo sono stato, e certo a due anni non amavo le bambole e i trucchi perché indottrinato da qualche sorta di catechismo o propaganda omosessuale.
Il progetto di queste nuove destre ultraidentitarie è, come sempre, fondato sullo sfruttamento opportunistico di idiosincrasie e scarsa informazione, ma capitalizza anche qualcosa di inedito, legato al nostro tempo.
I social network hanno cambiato tutto e, come ogni rivoluzione, tengono insieme aspetti positivi ed effetti collaterali. Hanno moltiplicato le voci del discorso pubblico, offrendo spazi nuovi a soggetti e comunità prima irrilevanti, ma le piattaforme su cui passiamo buona parte del nostro tempo — oltre alla piaga delle fake news — han-no anche precise regole del gioco. Gli algoritmi premiano la polarizzazione, funzionano tramite una forma di ricatto implicito che tutti, prima o poi, metabolizziamo. Più sarai rapido e aggressivo, più sarai premiato. Più sarai feroce e più sarai amato. I social non stimolano la conciliazione, la ricomposizione del conflitto: il loro modello di business è basato sulla reiterazione compulsiva della contrapposizione. Lo schema è binario e qualsiasi terza/quarta opzione si provi a introdurre verrà ignorata o ricondotta a uno dei due grandi eserciti già schierati che si fronteggiano con l’intento di distruggersi. Annientare l’altro — con pattern di pensiero inflessibili, shitstorm e gogne di vario genere — è un ottimo modo per rafforzare la propria presenza online. Così funzioniamo ormai tutti: anche i progressisti ricorrono a modalità comunicative e di promozione dei propri valori che un tempo avremmo definito scarsamente democratiche, disinteressate al pluralismo. Homo homini lupus: la
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Questi avversari in realtà sono i più deboli della popolazione, già di loro vessati da pregiudizi, vuoti legislativi e marginalità
partita del personal branding è all’insegna della logica del più forte, e i temi sociali spesso diventano solo un pretesto per l’autopromozione.
Di fronte alla rinascita di movimenti politici ostili al mondo plurale forse puntare il dito non basta: il sogno strisciante di abbattimento dell’altro è qualcosa che ci riguarda tutti, indipendentemente dallo schieramento in cui ci sentiamo arruolati. Da qui passano le sfide più grandi del nostro futuro, come singoli Paesi e comunità europea: ricominciare a immaginare soluzioni per abitare davvero insieme lo spazio pubblico, bilanciando — col tempo, che i social ci hanno tolto, e l’arte della persuasione, caduta in disuso — le ragioni dei vari gruppi, senza affidare tutto a quest’unico, grande regno disincarnato e immateriale della forza, a cui ci siamo assuefatti. E che ci uniforma, sotto il segno dell’intolleranza. È colpa degli altri, ma a volte anche nostra, e a volte semplicemente non si sa. Bisogna prendersi del tempo, capirlo insieme, accostando le differenze, tornando a metterci il corpo: uno sforzo che siamo sempre meno disposti a sopportare.