MUTI E I SUOI «NIPOTI»
I WIENER E IL SODALIZIO CON IL MAESTRO STASERA APRONO IL RAVENNA FESTIVAL
So che «odia sentirsi considerato un nonno, ma noi siamo come i suoi nipoti e, in un certo senso, Riccardo Muti è il nostro direttore musicale».
Chi parla è Daniel Froschauer, 58 anni, viennese, presidente dei Wiener Philharmoniker nonché uno dei primi violini dell’orchestra. Che ha una storia unica: è una società autogestita. Oggi Muti e i Wiener apriranno il Ravenna Festival. «Dai Filarmonici viennesi ho avuto tutto — dice Muti — ho lavorato con tre generazioni di musicisti, e ora gli sto restituendo quello che da loro ho ricevuto». «Muti — dice Froschauer — si riferisce al respiro del suono, all’articolazione di una frase, all’approccio». L’incontro col presidente dei Wiener avviene a Palazzo Lobkowitz, che ospita la mostra con estratti del manoscritto autografo della Nona Sinfonia di Beethoven, conservato a Berlino. Si sono conclusi i concerti celebrativi di Muti sull’anniversario dei 200 anni dalla prima della Nona, sotto la direzione di Beethoven in completa sordità, il 7 maggio 1824.
Con Froschauer parliamo nella sala del palazzo dove debuttò l’eroica di Beethoven. In questo mondo tutto è simbolo. È una storia cominciata nel 1842, quando Otto Nicolai fondò i Wiener. Due contrabbassisti avevano suonato la Nona con Beethoven. Per Froschauer, «l’ispirazione per fondare l’orchestra fu propiziata da quell’evento, c’è un legame diretto con la Nona». Il primo concerto di Muti con i Wiener risale al 1971, quando Karajan lo invitò a dirigere Don Pasquale a Salisburgo.
Poi, non ha saltato un anno. Il chairman dei Wiener mette enfasi sul debutto di Muti ai loro concerti in abbonamento, nel 1975, e questo dettaglio, apparentemente insignificante, la dice lunga su una vita musicale scandita da piccoli e grandi riti poco decifrabili a prima vista. L’abbonamento significava entrare a pieno titolo nel club di una compagine che, nel tempo, avrebbe donato a Muti l’anello d’oro, e nominato membro onorario.
I Wiener non hanno mai voluto un direttore stabile. Ma nel remoto passato alcuni direttori, da Hans Richter a Gustav Mahler, diressero quasi esclusivamente questa orchestra. «Nel 1933, è stata introdotta una nuova norma, tuttora in vigore, secondo cui noi ogni volta decidiamo con chi vogliamo suonare». Dopo la Nona, Muti quest’anno avrà altri due appuntamenti importanti con loro: a metà agosto a Salisburgo il suo debutto con l’ottava Sinfonia di Bruckner («a gennaio mi ha mostrato la versione per quattro mani al pianoforte da parte di un allievo di Bruckner, sette mesi prima, aveva già la testa su questo concerto»), e il suo settimo Concerto di Capodanno.
Muti ha diretto i Wiener in oltre 500 concerti. Froschauer, se dovesse ricordarne uno? «Forse il concerto di Capodanno del 2021. Noi lottammo per avere il pubblico in sala, il governo si oppose. Però con la sala vuota si strinse il rapporto tra noi e il direttore. Alla prova generale, Muti svelò di non avere idea di cosa avrebbe detto durante il concerto. E questo gettò nello scompiglio la tv, che non aveva feedback». Durante le prove parlate molto con lui? «Sì, capita, talvolta siamo in disaccordo su alcune soluzioni, lui presta attenzione alle nostre indicazioni».
Froschauer fa due osservazioni interessanti. La prima, per spiegare l’unicità dei Wiener: essendo, quella alla Staatsoper e i Filarmonici al Musikverein, un’unica orchestra, «abbiamo un’anima operistica, la lirica è un viaggio nell’animo umano, l’amore e l’odio, le gelosie, le vendette, i tradimenti, le esplosioni di sentimenti, tutto questo confluisce nel nostro modo di far musica». I pezzi da novanta però suonano nella Filarmonica. E poi i Wiener devono la fama al «suono della tradizione, ma questa tradizione non è un diritto divino, si può facilmente perdere, è un dono prezioso ma fragile che va custodito».
Oggi i Wiener ospitano 23 nazionalità. Un melting pot di anima germanica, slava, mediterranea che ricorda l’impero austro-ungarico. Dopo il fulcro austriaco, vengono da tutto il mondo, Giappone, USA, Australia, Nuova Zelanda, Russia, Ucraina. «L’importante non è da dove vieni ma come si riesce a fare un unico respiro, in un mélange multi etnico che a me ricorda l’impero austro-ungarico». Non sono più un monolito di soli uomini. Le donne sono entrate nel 1997. L’italiana Silvia Careddu, flautista, nel 2019 purtroppo non è stata riconfermata dopo il triennio di apprendistato in cui si fanno le ossa all’opera. Ma c’è un altro italiano, il primo trombonista Enzo Turriziani, nato a Rieti nel 1989, i primi passi nella banda di Poggio Mirteto. Dalla banda di paese ai campioni del mondo, se non è una favola questa…
Il direttore
«Dai Filarmonici viennesi ho avuto tutto, ho lavorato con tre generazioni di musicisti»
Ci dicono che abbiamo il suono della tradizione: un dono prezioso ma fragile, da custodire
Il maestro presta attenzione alle nostre indicazioni, se non siamo d’accordo ne parliamo