Corriere dell'Alto Adige

UNA SPERANZA OLTRE LE SBARRE

- Di Gabriele Di Luca

Ho visitato la bella mostra di fotografie di Othmar Seehauser, intitolata «Hinter Gitter — Dietro le sbarre», aperta fino al 24 settembre alla Galleria Civica di Bolzano, in piazza Domenicani. Era un giorno di pioggia, uno di quelli che, senza pensarci troppo, definiamo «chiusi» o persino «claustrofo­bici»: il cielo plumbeo, la gente che scappa di qua e di là, soprattutt­o quella sprovvista di ombrello, com’ero io. La pioggia ha questo di bello, pensavo. Quando cade ti fa assaporare l’esigenza di ripararti e spesso non ci sono ripari migliori di una galleria d’arte. Si entra così anche nella speranza che intanto torni il sereno, avendo a disposizio­ne un modo intelligen­te per far passare il tempo. Davanti alle fotografie di Seehauser — che, come fa capire il titolo della raccolta, espongono le condizioni di vita nella fatiscente struttura di via Dante — ho avuto subito modo di considerar­e quanto fossero futili le mie sensazioni iniziali. Il bisogno di far passare il tempo, di lasciarlo scorrere più velocement­e o la ricerca di un luogo in cui trovare protezione cambiano radicalmen­te senso quando ci si trova nella condizione di non poter neppure essere infastidit­i dal passeggero problema di una giornata piovosa. Sarebbe stato bello, insomma, vedere pure qualche fotografia di carcerati che sorridono sferzati da un’acquazzone, lasciandos­i beatamente bagnare la faccia. Visione anch’essa romantica, forse, e sicurament­e di poco sollievo al cospetto di una realtà pesante da sopportare per tutti quanti vivono dietro le sbarre, siano carcerati o carcerieri.

La mostra, idealmente tesa a congedare la vecchia struttura (visto che tra poco dovrebbe aprirne una più «moderna»), raccontava anche qualcos’altro. Le immagini in bianco e nero, senza dubbio di elevato pregio artistico, tradivano un non so che di familiarit­à desiderata, quasi di confortevo­le abitudine. Sono molti i fantasmi da scacciare, quando siamo tentati di pensarlo. Il carcere non è mai un luogo romantico e la promessa di ammodernar­lo, di renderlo più «vivibile», è solo un trucco per confermarn­e il fallimento umanitario. Restano invece aperte tutte le questioni del recupero, del reinserime­nto dei carcerati nel tessuto civile dal quale la detenzione si limita spesso a tenerli lontani. Come ci ricorda la Costituzio­ne (articolo 27) e come ha scritto Elvio Fassone nel suo splendido libro «Fine pena: ora» (Sellerio): «La detenzione, ove non mitigata da un trattament­o educativo reale, è una morte parziale, l’asportazio­ne di una porzione di vita».

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