UNA SPERANZA OLTRE LE SBARRE
Ho visitato la bella mostra di fotografie di Othmar Seehauser, intitolata «Hinter Gitter — Dietro le sbarre», aperta fino al 24 settembre alla Galleria Civica di Bolzano, in piazza Domenicani. Era un giorno di pioggia, uno di quelli che, senza pensarci troppo, definiamo «chiusi» o persino «claustrofobici»: il cielo plumbeo, la gente che scappa di qua e di là, soprattutto quella sprovvista di ombrello, com’ero io. La pioggia ha questo di bello, pensavo. Quando cade ti fa assaporare l’esigenza di ripararti e spesso non ci sono ripari migliori di una galleria d’arte. Si entra così anche nella speranza che intanto torni il sereno, avendo a disposizione un modo intelligente per far passare il tempo. Davanti alle fotografie di Seehauser — che, come fa capire il titolo della raccolta, espongono le condizioni di vita nella fatiscente struttura di via Dante — ho avuto subito modo di considerare quanto fossero futili le mie sensazioni iniziali. Il bisogno di far passare il tempo, di lasciarlo scorrere più velocemente o la ricerca di un luogo in cui trovare protezione cambiano radicalmente senso quando ci si trova nella condizione di non poter neppure essere infastiditi dal passeggero problema di una giornata piovosa. Sarebbe stato bello, insomma, vedere pure qualche fotografia di carcerati che sorridono sferzati da un’acquazzone, lasciandosi beatamente bagnare la faccia. Visione anch’essa romantica, forse, e sicuramente di poco sollievo al cospetto di una realtà pesante da sopportare per tutti quanti vivono dietro le sbarre, siano carcerati o carcerieri.
La mostra, idealmente tesa a congedare la vecchia struttura (visto che tra poco dovrebbe aprirne una più «moderna»), raccontava anche qualcos’altro. Le immagini in bianco e nero, senza dubbio di elevato pregio artistico, tradivano un non so che di familiarità desiderata, quasi di confortevole abitudine. Sono molti i fantasmi da scacciare, quando siamo tentati di pensarlo. Il carcere non è mai un luogo romantico e la promessa di ammodernarlo, di renderlo più «vivibile», è solo un trucco per confermarne il fallimento umanitario. Restano invece aperte tutte le questioni del recupero, del reinserimento dei carcerati nel tessuto civile dal quale la detenzione si limita spesso a tenerli lontani. Come ci ricorda la Costituzione (articolo 27) e come ha scritto Elvio Fassone nel suo splendido libro «Fine pena: ora» (Sellerio): «La detenzione, ove non mitigata da un trattamento educativo reale, è una morte parziale, l’asportazione di una porzione di vita».