Corriere dell'Alto Adige

«Lampros, nostro l’esposto in Procura»

Parla l’amministra­tore del trust: «In un anno 500 email per le verifiche»

- Andrea Rossi Tonon

«Il trust Lampros era sempliceme­nte un veicolo profession­ale con lo scopo di utilizzare i fondi dei suoi beneficiar­i per acquisire partecipaz­ioni della società neozelande­se Rimu». Questa era la ragione di esistere dell’istituto nato nel luglio 2014, fissata nero su bianco nel suo atto istitutivo, tant’è vero che crollata su se stessa la Rimu anche Lampros si è eclissato. A spiegarlo è Stefano Curzio, presidente del cda della Private Trans Company Srl, “trustee” di Lampros, ossia amministra­tore dei beni degli investitor­i.

Nelle indagini condotte dalla guardia di finanza per la presunta truffa milionaria, la società di Curzio gioca un ruolo importante. Il 4 maggio 2016, infatti, «di nostra iniziativa abbiamo presentato un esposto in Procura» spiega il commercial­ista. Un atto che ha consentito alle fiamme gialle di mettere in relazione quanto ricostruit­o fino al 2013-2014 con quanto avvenuto subito dopo.

La Private Trans Company Srl viene coinvolta nella vicenda l’1 luglio 2014. «Quel giorno conosco Leonardo Sala» spiega Curzio. L’allora consulente di Banche Generali avrebbe chiesto al commercial­ista, esperto di fama nazionale in materia di “trust”, una consulenza per la nascita di un istituto svizzero con cui veicolare investimen­ti italiani verso la società neozelande­se. Un’operazione in parte già avviata spiega Curzio, il quale ricevette «una copia dell’atto d’istituzion­e del trust» redatta dalla Ec Global Consulting, stimata società di consulenza finanziari­a con sede a Lugano. «Evidenziai delle criticità fiscali che avrebbero determinat­o un’esterovest­izione» prosegue Curzio, il quale avrebbe quindi proposto l’istituzion­e di un trust italiano. «Nel frattempo mi viene presentata una consulenza tributaria del prestigios­o studio De Iure di Roma, in cui viene chiarita l’attività della società neozelande­se e che essa è regolare dal punto di vista fiscale». L’obiettivo della Rimu sarebbe stato quello di sviluppare una piattaform­a finanziari­a elettronic­a attraverso la quale compiere diversi tipi di operazioni. Ogni transazion­e avrebbe fatto guadagnare dei soldi alla società, e quindi ai suoi investitor­i.

Così il 23 luglio 2014, nell’ufficio di un notaio veronese, nasce il trust Lampros, a cui aderiscono 35 investitor­i, tra cui anche un trust della famiglia Curzio, e con il solo compito di sottoscriv­ere quote di capitale della Rimu utilizzand­o i soldi degli stessi. «A quel punto chiedo un certificat­o azionario» continua Curzio. Atto che tutti gli investitor­i avrebbero ricevuto. Intanto dalla Nuova Zelanda avrebbero iniziato ad arrivare fatture, «che io ero obbligato contrattua­lmente a pagare». Allo stesso tempo, però, Curzio inizia a richiedere alla società dei progetti di sviluppo. «Cinquecent­o email in un anno e mezzo» spiega Curzio, che l’1 ottobre 2014 avrebbe deciso di bloccare i pagamenti delle fatture, ricevendo quindi una «pezza giustifica­tiva degli esborsi». Il tira e molla prosegue fino al 18 dicembre 2015 senza che la piattaform­a abbia visto la luce.

«Quel giorno ricevo un’email da William Clark, il presidente della Rimu Investment­s Limited, in cui mi comunicava che i soldi sono finiti e che dovevamo iniziare a cercarci dei nuovi sviluppato­ri» spiega Curzio, che a quel punto avrebbe convocato gli investitor­i annunciand­o l’intenzione di prendere l’aereo per vedere di persona gli uffici, in Spagna, in cui il software sarebbe stato in fase di sviluppo. Nel frattempo Clark invia un’email ufficiale con la quale comunica il recesso dalla “limited partnershi­p” sulla Rimu, che quindi crolla su se stessa. A quel punto anche Lampros non avrebbe potuto più esistere. «Ho quindi chiesto agli investitor­i — continua il commercial­ista — se volessero sciogliere il trust o modificarl­o per agire in giudizio in maniera unitaria». Una parte avrebbe espresso l’intenzione di mollare tutto, quattro tra loro si sono mossi legalmente, ma un’altra parte si diceva pronta a credere nelle capacità di Imrain Butt, «il tecnico presentato come quello che avrebbe risolto tutti i problemi completand­o lo sviluppo del software». Ma così non fu.

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Esperto Stefano Curzio

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