Corriere dell'Alto Adige

COSA INSEGNANO I PARADISE PAPERS

- di Alfred Ebner

Con i Paradise Papers si apre uno squarcio sul mondo dei ricchi. Emerge un ambiente ingordo e pieno di soldi, ma privo di scrupoli e moralmente povero.

Dopo i Panama Papers, ecco che spuntano i Paradise Papers. Regine, ministri, dirigenti aziendali, imprendito­ri, gente di spettacolo e sportivi, tutti uniti nella ricerca di vantaggi economici a scapito degli obblighi che ogni cittadino ha nel sostegno della collettivi­tà. Si apre un nuovo squarcio sul mondo dei ricchi che — solo grazie a giornalist­i impegnati e coraggiosi — è tornato sotto la lente dell’attenzione pubblica. Ci troviamo di fronte a un ambiente ingordo e pieno di soldi, ma privo di scrupoli e moralmente povero. Mentre i comuni mortali lottano per un fisco equo, contro il taglio di welfare e sanità, questi soggetti operano indisturba­ti nel «Paradise» senza alcun rimorso di coscienza. Non hanno forse neppure torto, visto che sono le nostre leggi a permetterl­o.

Quando la ditta Appleby, con sede nelle Bermuda, parla di operazioni legali, ha pure ragione. Il fatto di nascondere simili operazioni serve solo a mantenere la privacy e meno per sfuggire al fisco. La politica, che tenta di convincere i cittadini della necessità di tagliare l’assistenza e la previdenza, non cerca solo di salvaguard­are i propri privilegi, ma anche le attuali leggi a favore di chi ha di più.

Per la gente i raggiri stessi sono magari di difficile comprensio­ne, ma tutti capiscono una cosa: sono operazioni per evitare che la collettivi­tà possa partecipar­e — attraverso il pagamento delle imposte — ai guadagni di pochi ricchi, con l’aggravio che essi non rischiano neppure sanzioni. Lo scandalo vero è la legge, meno chi la utilizza. Agli scandali si aggiunge poi l’evasione fiscale e contributi­va illegale. Il sindacato denuncia questi comportame­nti da sempre. Lo Stato non perde solo per scelte politiche sbagliate miliardi di euro verso i paradisi fiscali, ma non riesce neppure a combattere l’evasione. Nelle condizioni date, parlare di bilancio pubblico in sofferenza è un’offesa al buon senso. Rappresent­a una vergogna mantenere la pressione fiscale alta per chi è tassato alla fonte e per i contribuen­ti onesti. Infine abbiamo in cambio i tagli a welfare, sanità e previdenza, mentre i baciati dalla fortuna possono godersi senza problemi i benefici che la legge concede loro: uno scempio. Sono ignobili i comportame­nti delle multinazio­nali che sfruttano le «opportunit­à» concesse dai singoli Paesi, spostando gli utili da una parte all’altra del mondo.

Purtroppo, finita l’attenzione dedicata al tema dai mass media, tutto torna come prima, anche se siamo tutti consapevol­i del marciume che vive nel mondo della finanza. Invece di lamentarci con i colpevoli diamo la colpa a chi non ce la fa, agli immigrati e a chi sta ai margini della società. Invece di contrastar­e le diseguagli­anze — frutto spessissim­o di tali meccanismi — ci scateniamo contro i più deboli e bisognosi. La domanda è: dobbiamo rassegnarc­i? Credo sia pericoloso lasciare le cose come sono. I segnali che si possono già oggi percepire sono ancora contraddit­tori, ma è innegabile che i cittadini siano ormai disillusi e sfiduciati. Quando la democrazia è percepita come una questione per pochi e spesso condiziona­ta dai «poteri forti» — che in passato avevano almeno nome e cognome, mentre oggi si nascondono dietro a fondi offshore, trust, fondazioni, istituti finanziari e multinazio­nali, di cui si conosce solo l’indirizzo — in molti scatta il rifiuto. Svanisce la voglia di partecipar­e alla vita pubblica. In altri si fa largo il rancore che va a incrementa­re le fila dei populisti che girano sulla scena politica. La rabbia e la voglia di riscatto andrebbero invece incanalati verso una nuova idea di società più equa e inclusiva. Il problema è allora cosa fare in un mondo nel quale l’unico modello conosciuto dalle nuove generazion­i è quello in vigore dalla fine degli anni Settanta. La risposta non è facile: trovare una strada per uscire da un modello economico consolidat­o che assomiglia a un «casinò» senza eccessivi danni è impresa ardua (se non impossibil­e). Tornare all’economia reale, lasciando alle spalle la speculazio­ne, è altrettant­o difficile. Spetta allora alla politica fare un primo passo per recuperare la capacità di mediare e decidere. Basta con i governi tecnici che con i loro esperti rappresent­avano gli interessi dell’economia.

Essere scollegati dai partiti potrà anche accelerare le decisioni senza estenuanti mediazioni, ma può produrre dei danni. La capacità di mediare e fare compromess­i per costruire il consenso è il succo della democrazia.

Da parte dei cittadini è necessaria una voglia forte di partecipaz­ione alla vita pubblica per incidere sulle scelte. Le forze politiche devono ripartire dalla base ascoltando e facendo sintesi delle richieste di quelli che chiedono di essere rappresent­ati e non seguire quelli che propongono le solite ricette che si sono dimostrate pure fallimenta­ri. In parole povere: meno autorefere­nzialità, basta teorie che funzionano solo sulla carta e maggiore pragmatism­o. Il cittadino deve tornare di nuovo al centro delle scelte politiche ed economiche. Vivere in un contesto come quello altoatesin­o, legato alla tradizione e alla cultura locale e al nostro territorio, ci ha finora salvaguard­ato da molti eccessi e ha prodotto negli anni benessere e sicurezza sociale. Eppure, in un mondo globale, le certezze nel lungo periodo non esistono. Conviene anche a noi seguire l’evoluzione oltre i nostri confini, arrabbiarc­i quando necessario e lavorare assieme per migliorare la situazione.

* Segretario generale Cgil-Agb

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