«I bimbi vanno amati»
L’intervista Gilles Paris a Trento martedì. All’Astra il film tratto dal suo libro «Mi sento un traghettatore di emozioni. Il più bel dono ai figli è la scrittura»
È la scrittura dolce e profonda di Gilles Paris che l’associazione Agevolando ha scelto per promuovere «Vivo.Con», il progetto che mette in rete le famiglie trentine con una stanza libera ed i ragazzi che, una volta compiuta la maggior età, devono lasciare le strutture protette che li hanno ospitati. L’autore francese sarà a Trento martedì: dalle 9 alle 11 incontrerà operatori sociali e studenti al dipartimento di sociologia, alle 17 dialogherà con i lettori in biblioteca e alle 21 proporrà al cinema Astra la visione del film d’animazione tratto dal suo libro La mia vita da zucchina.
Gilles Paris, la presenza ricorrente nella sua scrittura di temi quali la depressione e l’emarginazione sociale basterebbero a definirla un «autore impegnato». Lei però fa un passo in più, cerca di spiegare questi concetti anche ai bambini. Come mai?
«Più che un “autore impegnato”, mi considero un “traghettatore di emozioni”, e se scrivo di emarginazione e depressione lo faccio perché credo che questi argomenti siano universali e toc
chino da vicino tutte le fasce sociali in ogni Paese».
A più di 15 anni dalla pubblicazione del suo «La mia vita da zucchina», il regista Claude Barras ne ha tratto un film d’animazione che nel 2017 si è meritato la candidatura sia agli Oscar che ai Golden Globe. Cosa si prova a vedere le proprie parole trasposte sullo schermo?
«È stato il dono più bello che il cielo potesse farmi e adesso il mio Zucchina ha due papà. Il film rispecchia fedelmente il romanzo e la sua uscita mi ha spinto a mettermi in discussione per raggiungere anche un pubblico più adulto, cosa che ho fatto nel mio ultimo libro Le vertige des falaises (La vertigine delle scogliere – non ancora tradotto in italiano, ndr).
I romanzi di formazione sono pieni di bambini rimasti orfani, che vivono con nonne e matrigne, oppure partono per mirabolanti avventure. Il suo protagonista invece, quando la mamma scompare, viene portato in una casa famiglia…
«Sì, perché nella vita reale questa è l’unica possibilità che viene data ai bambini rimasti soli. Spesso però le case famiglia vengono descritte nel modo sbagliato, come delle prigioni, mentre in realtà sono luoghi in cui chi ha avuto un’infanzia difficile può scoprire l’affetto, l’amicizia e l’amore. Per quasi un anno ho lavorato in un centro di accoglienza per giovani e questo libro vuol essere un omaggio a tutti i colleghi educatori che si impegnano per restituire a questi ragazzi la fiducia nel mondo degli adulti».
Ma quanto ancora la famiglia di provenienza incide sul futuro di un bambino?
«Sono un romanziere, non uno statista, ma credo che incida ancora molto e che spetti alla politica trovare i giusti correttivi».
Qual è la materia più importante che dovremmo insegnare a scuola?
«La scrittura. Imparare l’alfabeto significa possedere la chiave del sapere e poter leggere con sguardo attento ciò che ci circonda».
Se dovesse fare un augurio ai bambini di oggi quale sarebbe?
«Che siano valorizzati e amati, a prescindere da tutto. Perché senza amore, noi non siamo niente».
Qual è la soddisfazione più grande che le hanno dato i suoi libri?
«Vederli tradotti e soprattutto presentarli: ogni volta sono agitato come se stessi andando a un appuntamento galante».