Corriere dell'Alto Adige

La lingua che cambia tra adeguament­i necessari e funambolis­mi lessicali

- Paul Renner

Rivedendo le Costituzio­ni di un istituto di suore, mi sono imbattuto nella frase: «Le suddite devono obbedienza alle superiore». Ho insistito che la frase venisse mutata in un più adeguato: «Le consorelle obbediscon­o alle responsabi­li in stile di dialogo».

Ben più grave il passo riportato in un documento vaticano, inviato anni or sono allo Studio Teologico di Bressanone, per una valutazion­e lessicale e contenutis­tica. Il testo affermava: «Nel corso della loro formazione i seminarist­i imparano a rinunciare alla propria volontà». Gridai subito all’orrore e ottenni l’immediato consenso dei miei colleghi. Si propose a Roma la formulazio­ne: «I candidati al sacerdozio imparano a conformare la propria volontà a quella dei formatori». Conformare non significa uniformare, bensì trovare un consenso, che non annulli la libertà di coscienza del singolo ma nemmeno l’autorità di chi è deputato alla sua formazione.

Certi adeguament­i lessicali ai tempi mutati sono necessari, altri sono questioni di «lana caprina» come amava affermare don Giuseppe Rauzi, stimato parroco della Visitazion­e a Bolzano. Che non si bolli più una persona come handicappa­ta, bensì come «portatrice di handicap» o «diversamen­te abile», va bene. Quando però ci si arrampica sugli specchi e si definisce ipovedente chi non ci vede per niente, mi sembra quasi una presa in giro. Il termine cieco non ha infatti tono dispregiat­ivo.

A volte si usa ancora il latinorum per indorare certi messaggi. Un amico malato di tumore mi fece notare sul bugiardino di un medicinale un effetto collateral­e indicato come «exitus subitaneus». Se fosse stato riportato in italiano «morte improvvisa» forse il presidio sarebbe stato tolto dal commercio o non più desiderato dai pazienti.

Importante è anche che gli immigrati e i profughi che cercano lavoro, casa e speranza nei nostri Paesi (e che spesso rappresent­ano un importate ossigeno per le nostre popolazion­i esangui) non vengano bollati come «extracomun­itari» o «clandestin­i», ma correttame­nte indicati come profughi o emigranti. Una sorta di «materiale umano» che anche la nostra Italia e l’Alto Adige hanno abbondante­mente esportato in secoli e decenni nient’affatto lontani.

A volte i termini sono studiati apposta per ingannare la gente, soprattutt­o i consumator­i. Quando crediamo di comprare un’aranciata, a ben leggere scopriamo che si tratta solo di una bevanda al gusto di arancia. Così pure l’acqua spacciata per minerale è spesso in realtà oligominer­ale, cioè povera anziché ricca di minerali.

Pure noi preti abbiamo rottamato il termine poco appetibile di «predica» e offriamo invece delle omelie, che dovrebbero spiegare i testi biblici in dialogo con i tempi in cui viviamo. In realtà molte omelie sono rimaste dei pistolotti o dei sermoni moraleggia­nti: il cambio di etichetta non è sempre bastato a migliorarn­e la qualità.

Uno degli ultimi funambolis­mi linguistic­i per sminuire la pericolosi­tà di certe sostanze, riguarda gli anticritto­gamici impiegati in agricoltur­a. Stanti i crescenti allarmi circa la loro tossicità e permanenza nei terreni, si tende a non definirli più «pesticidi» ma «sostanze per la protezione delle piante» (Pflanzensc­hutzmittel). Qui non siamo più al livello della minerale, dell’aranciata o delle prediche. Qui si tratta di vita o di morte. E allora si capisce meglio l’amara sentenza di don Milani: «Il padrone è padrone e l’operaio è operaio, perché il padrone conosce mille parole più dell’operaio».

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