La lingua che cambia tra adeguamenti necessari e funambolismi lessicali
Rivedendo le Costituzioni di un istituto di suore, mi sono imbattuto nella frase: «Le suddite devono obbedienza alle superiore». Ho insistito che la frase venisse mutata in un più adeguato: «Le consorelle obbediscono alle responsabili in stile di dialogo».
Ben più grave il passo riportato in un documento vaticano, inviato anni or sono allo Studio Teologico di Bressanone, per una valutazione lessicale e contenutistica. Il testo affermava: «Nel corso della loro formazione i seminaristi imparano a rinunciare alla propria volontà». Gridai subito all’orrore e ottenni l’immediato consenso dei miei colleghi. Si propose a Roma la formulazione: «I candidati al sacerdozio imparano a conformare la propria volontà a quella dei formatori». Conformare non significa uniformare, bensì trovare un consenso, che non annulli la libertà di coscienza del singolo ma nemmeno l’autorità di chi è deputato alla sua formazione.
Certi adeguamenti lessicali ai tempi mutati sono necessari, altri sono questioni di «lana caprina» come amava affermare don Giuseppe Rauzi, stimato parroco della Visitazione a Bolzano. Che non si bolli più una persona come handicappata, bensì come «portatrice di handicap» o «diversamente abile», va bene. Quando però ci si arrampica sugli specchi e si definisce ipovedente chi non ci vede per niente, mi sembra quasi una presa in giro. Il termine cieco non ha infatti tono dispregiativo.
A volte si usa ancora il latinorum per indorare certi messaggi. Un amico malato di tumore mi fece notare sul bugiardino di un medicinale un effetto collaterale indicato come «exitus subitaneus». Se fosse stato riportato in italiano «morte improvvisa» forse il presidio sarebbe stato tolto dal commercio o non più desiderato dai pazienti.
Importante è anche che gli immigrati e i profughi che cercano lavoro, casa e speranza nei nostri Paesi (e che spesso rappresentano un importate ossigeno per le nostre popolazioni esangui) non vengano bollati come «extracomunitari» o «clandestini», ma correttamente indicati come profughi o emigranti. Una sorta di «materiale umano» che anche la nostra Italia e l’Alto Adige hanno abbondantemente esportato in secoli e decenni nient’affatto lontani.
A volte i termini sono studiati apposta per ingannare la gente, soprattutto i consumatori. Quando crediamo di comprare un’aranciata, a ben leggere scopriamo che si tratta solo di una bevanda al gusto di arancia. Così pure l’acqua spacciata per minerale è spesso in realtà oligominerale, cioè povera anziché ricca di minerali.
Pure noi preti abbiamo rottamato il termine poco appetibile di «predica» e offriamo invece delle omelie, che dovrebbero spiegare i testi biblici in dialogo con i tempi in cui viviamo. In realtà molte omelie sono rimaste dei pistolotti o dei sermoni moraleggianti: il cambio di etichetta non è sempre bastato a migliorarne la qualità.
Uno degli ultimi funambolismi linguistici per sminuire la pericolosità di certe sostanze, riguarda gli anticrittogamici impiegati in agricoltura. Stanti i crescenti allarmi circa la loro tossicità e permanenza nei terreni, si tende a non definirli più «pesticidi» ma «sostanze per la protezione delle piante» (Pflanzenschutzmittel). Qui non siamo più al livello della minerale, dell’aranciata o delle prediche. Qui si tratta di vita o di morte. E allora si capisce meglio l’amara sentenza di don Milani: «Il padrone è padrone e l’operaio è operaio, perché il padrone conosce mille parole più dell’operaio».