IDEOLOGIE E TEMPO PRESENTE
Un interessante libro del filosofo triestino Carlo Michelstaedter titola significativamente «La persuasione e la retorica». Vi si sostiene che la vera persuasione, quella che deriva dal possesso della vita e della verità, si oppone alla falsa persuasione costruita dalla retorica, che è, invece, semplice esercizio di convincimento. I festeggiamenti per il 25 aprile avrebbero fornito ampia materia di riflessione a Michelstaedter, così compressi tra la persuasione di aver davvero girato una pagina della nostra storia, e la retorica che nasconde una realtà divisiva e tutt’altro che pacificata. Anzi, mai come quest’anno i giorni precedenti alla festa della liberazione hanno mostrato quanto gli avvenimenti di ottant’anni fa non siano ancora stati metabolizzati e conoscano rigurgiti ideologici per tanti versi sorprendenti. Eppure molte cose sono cambiate su di un quadrante molto più ampio: dalla caduta del muro di Berlino nel 1989, all’esplosione, due anni dopo, di Tangentopoli. E, conseguentemente, ci avevano raccontato che si stava affermando una stagione caratterizzata dalla fine delle ideologie. Era una previsione sbagliata, perché se c’è un tempo dove le ideologie tendono alla sopraffazione è proprio il tempo presente. Così, una nuova inquisizione mediatica pretende abiure di un fascismo sepolto sotto le macerie di una della guerra d’occupazione di cui festeggiamo la liberazione, e dagli orfani di un comunismo dissoltosi più di trent’anni un’autodafè di condanna dei totalitarismi di derivazione sovietica.
Un rumore assordante che tende, nel silenzio del presente, a rimescolare da un lato il passato in una sorta di perenne redde rationem, e che dissimula, dall’altro, l’incapacità di pensare un futuro liberato.
Poca persuasione, cioè, e molta retorica. Certo fare i conti con la realtà che ci circonda fa tremare le vene ai polsi. Gli Stati Uniti non più in grado di interpretare il ruolo di sceriffo del mondo, nuovi equilibri che vedono crescere il protagonismo cinese; un’Europa attanagliata da una sorta di rigor mortis che la vede incapace di reagire politicamente a una guerra sul suo territorio continentale ormai non più rubricabile come conflitto regionale; una escalation mediorientale al cui traino vecchi odi e pregiudizi razziali che credevamo davvero superati tornano ad affacciarsi in maniera inquietante sul nostro orizzonte.
La continuità nella linea del potere si è infranta: definitivamente tramontato il consociativismo cattocomunista, la destra, come era del tutto prevedibile stante la precaria fragilità dell’opposto schieramento, ha acquisito un consenso democratico evidente e solido, piaccia o non piaccia. Questo il quadro nel quale nuove intolleranze tornano a mescolare antisionismo e antisemitismo, dove le università non si qualificano più come i luoghi di un confronto e dibattito ma di scontro ideologico e le rivendicazioni estreme di libertà individuali assolute divengono la roccaforte non dell’individualismo borghese ma di ciò che rimane dell’arcipelago della sinistra.
In un contesto pericoloso di confusioni e massimalismi, nel quale delle ideologie di un tempo rimane solo un’urlata intransigenza orfana di una visione di futuro (e forse di una incapacità o non volontà di guardare dentro un pericoloso vaso di Pandora) il 25 aprile rischia di perdere il suo richiamo forte all’unità e di costituire, invece, l’esercizio di una retorica che non aiuta la persuasione.