Corriere dello Sport (Campania)

Lopez e il suo calcio dell’altro mondo

- Di Eugenio Russo

Fabio Lopez è un allenatore italiano, nato a Roma il 17 giugno 1973. A 42 anni è stato ct del Bangladesh, dopo aver lavorato in Lituania, Malesia, Indonesia e Maldive. Parla tre lingue e, da quando ha lasciato l’Italia, nonostante i successi ottenuti all’estero, non ha ricevuto alcuna chiamata, neanche da società di Lega Pro. La sua famiglia vive nella capitale, dov’è tornato per la nascita del figlio, salvo poi ripartire. Si è adattato alle diverse culture con le quali è entrato in contatto, trovando ogni volta la chiave giusta per farsi apprezzare e lottare per gli obiettivi prefissati. Il suo Paese gli manca, forse più di quanto egli stesso ammetta. «Tanto: abbiamo preso parte alle qualificaz­ioni ai Mondiali del 2018 e alla Saff, Coppa della Federazion­e calcistica dell’Asia meridional­e. In Bangladesh, prima del cricket, era il calcio la principale disciplina sportiva, oggi in ripresa. L’ho avvertito dall’accoglienz­a: interviste, autografi, saluti. Mi ritrovavo tifosi e giornalist­i ovunque. Questo affetto mi ha fatto molto piacere. Purtroppo ho rescisso anzitempo il contratto per motivi di instabilit­à nella dirigenza della federazion­e». «La mia breve carriera da calciatore inizia e finisce a Roma, ero portiere. Poi una tendinite e la consapevol­ezza che a certi livelli non sarei potuto arrivare, mi hanno convinto a smettere a soli 22 anni».

«No, continuai come allenatore dei portieri e delle giovanili, prima di collaborar­e allo scouting di Atalanta e Fiorentina». «Si, dopo aver preso contatti fui ingaggiato dal Banga Gargzdai, il mio primo club. Militava in Prima Divisione lituana: arrivai sesto, miglior difesa e solo sei partite perse su ventisette. Torno spesso in città per far visita al presidente, con il quale ormai siamo amici. Nel 2008 passai in A Lyga, massima serie lituana, al Siauliai: quarto posto e nove risultati utili consecutiv­i. Poi fui chiamato in Malesia, al Sabah Fa, in Serie A malese, dove fui dirigente, prima di accettare la successiva chiamata sulla panchina del PSMS Medan, in Indonesia». «Presi la squadra da neopromoss­a e nonostante il mancato pagamento degli stipendi, riuscii a raggiunger­e la salvezza, tenendo insieme il gruppo e puntando sulle motivazion­i personali. Quei giocatori con lo stipendio dovevano viverci, quindi la situazione stava diventando drammatica. Nonostante la salvezza in classifica, però, la squadra retrocesse a causa di problemi societari. Il mio obiettivo, comunque, lo avevo raggiunto». «Seguivo giornalmen­te le vicende di Donadoni e dei ragazzi. Ho molta stima di Roberto e di quei giocatori. In certe situazioni è proprio l’allenatore che fa la differenza». «Per la stagione 2013/2014 ho allenato il BG Sports Club, dalla quarta all’ultima giornata. Altro cambio, tanto lavoro e un meritatiss­imo terzo posto». «Consiglio di muoversi e di crederci sempre. L’Italia sa distrugger­e i sogni, ma se continui ad impegnarti e fai sacrifici veri, alla fine i risultati arrivano. E’ la legge dei grandi numeri: il voler fare è la chiave. In Italia si educano i bambini a dire “Io vorrei” e non “Io voglio”. A mio figlio insegnerò la seconda frase. Perché se si vuole diventare allenatore profession­ista lo si diventa, nonostante tutto».

«Ho un figlio di dieci mesi. La mancanza della famiglia l’ho avvertita eccome, ma loro sanno qual è il mio lavoro e che dai club italiani, in questi anni di massime serie in giro per il mondo, non è arrivata nessuna telefonata, né per me, né per chiedermi notizie circa i calciatori migliori. E ne ho visti tanti che avrebbero fatto bene anche in Serie A».

«Alle Maldive giocava il centravant­i più forte di tutto il SudEst asiatico, Ali Ashfaq, oggi trentenne. Ho ricontroll­ato i suoi dati un paio di mesi fa: 283 gol in 292 partite, non solo in squadre maldiviane. Attualment­e gioca in Malesia: 22 reti in 24 gare. Una chance il calcio italiano poteva dargliela, dato che lo hanno cercato anche dalla Premier League. L’ho avuto come avversario e non permetterg­li di segnare è stato difficile, ma ci sono riuscito, facendolo marcare dal fratello, un mediano che era nella mia squadra». «Si vive seguendo il motto “Italians do it better”, crediamo di essere i più bravi ed i più furbi, ma non sappiamo guardare anche lontano. Anche a livello culturale. Ho vissuto in diversi Paesi islamici e ho visto persone di fedi differenti convivere in armonia, celebrando gli uni i riti degli altri. Io stesso, quando i miei giocatori dovevano pregare, interrompe­vo l’allenament­o per uno o due minuti e a volte pregavo con loro. Tanto, se credi, pregare non fa male. Basta sapersi adattare e non imporre le proprie regole. Questo vale per tutti». «Ho dovuto aspettare di diventare allenatore di una Nazionale per ricevere le prime telefonate. All’estero mi sono trovato bene ed è lì che sono più conosciuto, ma se arrivasse un’offerta italiana importante, che tenesse conto dei risultati ottenuti finora, ci penserei seriamente».

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Fabio Lopez, 42 anni: ha partecipat­o alle qualificaz­ioni mondiali

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