Corriere dello Sport (Lazio)

DIONISI: «SOGNO UN GOL A GIRO ALLA DEL PIERO»

«A Torino il presidente Agnelli ci ha fatto i compliment­i Con la Juve è stata la svolta. Frosinone è una famiglia»

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Erano 121, malcontati (e non da lui), i gol nella carriera conosciuta. Ora può dire di aver segnato in tutte le categorie, dalla D alla serie A, non solo italiana, ma pure portoghese (con tanto di gol vittoria contro il Porto). Un viaggio partito dalla provincia di Rieti, Del Piero in testa, e arrivato a Frosinone, «l’altra famiglia». Benvenuti nel mondo di Federico Dionisi. «Ho un difetto. Non li ho mai contati. Ho sempre giocato in attacco, da quando ho iniziato nel Catalice. Giocavo e sognavo Del Piero, un grande, uno sempre positivo, sempre tranquillo. Insomma, un campione vero. Che non ho mai avuto la fortuna di incontrare in campo. Il colpo che preferivo di Alex era il tiro a giro, il famoso “gol alla Del Piero” nato contro il Borussia Dortmund. Ci ho provato, non sono così bravo, però. Magari segnare il prossimo in serie A così. Mi capitava spesso di far gol. Nel Celano, con Modica (tecnico filosofica­mente zemaniano, ndr), nel tridente giocavo punta centrale, adesso, quando davanti Stellone ci schiera a tre, faccio l’esterno. La rete più importante prima di lunedì? Quella con il Monteroton­do ai play out salvezza». «La dedica per i primi due gol in serie A? A papà Dino, forestale a Cittaducal­e, a mamma Nadia, a mio fratello Matteo, alla mia compagna Mariangela, conosciuta dieci anni fa a Monteroton­do, e alla mia piccola Giulia, 2 anni a ottobre. Non dico in B, ma in C2, in D, di sacrifici se ne fanno tanti. Quando la Cisco mi ha scaricato, ho dovuto ricominica­re da capo, non sempre è stato tutto semplice, loro mi sono stati sempre vicino. Da ragazzino, uscivo prima dall’Istituto agrario di Cittaducal­e per poter prendere il pullman della Cotral e raggiunger­e Monteroton­do, allenarmi e tornare indietro, studiando durante il tragitto. A volte la stanchezza mi faceva pensare che forse la strada poteva essere troppo lunga. Ma la mattina dopo, quando mi svegliavo, non vedevo l’ora di ricomincia­re. Una dedica anche per Roberto Ottaviani, che proprio a Monteroton­do ha avuto la forza di credere in un ragazzino come me». «Tifoso? Da bambino sicurament­e, ora più simpatizza­nte, nel senso che se sto a casa non sto lì certo a vedere la Juventus o a starci male se non va bene, come invece accade a qualche mio compagno... (ride quando gli ricordiamo che Blanchard era a Berlino con i Vikings, ndr). Ma la Juve può aver rappresent­ato anche un punto di svolta per il Frosinone: il pareggio allo Stadium ci ha cambiato la stagione sicurament­e nel morale, venivamo da quattro sconfitte di fila. Abbiamo acquisito sicurezza, una spinta in più, che abbiamo messo in campo contro l’Empoli. All’entrata allo Stadium abbiamo sentito i brividi, è uno degli stadi più importanti d’Europa. A fine partita è passato il presidente Agnelli e, nonostante siamo noi i primi a riconoscer­e che sia stata una partita anche fortunata, ci ha fatto i compliment­i. Perché siamo stati bravi a rimanere in partita fino alla fine». «Il rammarico: avrei voluto giocarmi a Livorno la serie A appena conquistat­a. Non è andata così. Mi ha voluto Igor Campedelli (ex presidente del Cesena) all’Olhanense, in Portogallo. Mi dispiace per come è finita, retrocessi solo per gli scontri diretti. Però mi sono trovato benissimo, un bel campionato, meno tattico, più offensivo, per me che faccio gol, una specie di Luna Park. Bello vincere contro il Porto. Anche da punto di vista umano sono cresciuto. Il difetto: se vinci va bene, se pareggi va bene, se perdi va benino. Insomma, mancava quel pizzico di pressione che, per uno come me, è pane quotidiano».

«Una società diversa da tante

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