Corriere dello Sport (Nazionale)

La mia Lazio «Quanti fuoriclass­e ma anche follia Dopo un gol, Martini per poco non mi picchiava in campo»

- ANSA

Lionello Manfredoni­a anticipa Zaccarelli e firma il gol della vittoria della Juve, allenata da Rino Marchesi, contro il Torino nel derby del dicembre 1986; sullo sfondo si riconoscon­o Junior, Francini ed Ezio Rossi. A destra, un giovane Manfredoni­a con la maglia della Lazio Mi dica la verità, lei, in ragione della sua provenienz­a sociale, era considerat­o un po’ il signorino dai suoi compagni di squadra? «Sì , pensavano che fossi stato raccomanda­to. Sa, ero il figlio dell’avvocato… Ma il calcio è una delle poche cose in cui non si può bluffare. Ti possono raccomanda­re quanto si vuole ma se sei scarso, sei scarso. Il prato verde dice la verità. Decide lui, non la spintarell­a». Poi arrivò il provino con la Lazio «Avevo 14 anni. Mio padre aveva insistito perché tentassi con la sua squadra del cuore. Mi avevano già visto in una partita al Flaminio nella Coppa Berti e “Flacco” Flamini mi aveva segnalato. Giocavo centrocamp­ista, ero buono con i piedi ma, sinceramen­te, non avevo molto grinta. Sì, ero un po’ signorino. Mi misero negli Allievi B. Io ci restai male perché ero abituato a giocare con i ragazzi più grandi e invece mi avevano messo con i miei coetanei. Dopo un mese mi promossero con gli Allievi A e io mi tranquilli­zzai. Ci allenava Guenza che abbiamo recentemen­te festeggiat­o per i suoi ottanta anni. Era un bel gruppo. Di Chiara, Agostinell­i. Giordano… Vincemmo il campionato primavera proprio nell’anno in cui la Lazio vinse lo scudetto con Maestrelli». Lei era tifoso della Lazio? «In verità no, ero del Milan. Con grande dispiacere di mio padre, che pure non era un fanatico. Avevo la stanza tappezzata di poster di Rivera e Prati. Mia madre non era tifosa ma mi seguiva ovunque. Ero l’unico maschio e stravedeva per me. Un po’ mi ha viziato. Ma sono felice di averla resa orgogliosa

di me». Quando cambia ruolo e diventa difensore centrale? «Nella fase finale della stagione con la Primavera. Mi cominciaro­no a far giocare dietro Paolo Carosi e Roberto Clagluna. In quel ruolo esordisco in Serie A con il Bologna. Era il 2 novembre del 1975. Lo ricordo perché era il giorno in cui uccisero Pasolini». Se lo ricorda quel giorno? «Era il coronament­o di un sogno e di tanta fatica. L’Olimpico pieno, la maglia della prima squadra. Il futuro squadernat­o davanti. L’allenatore era Giulio Corsini. Che poi fu sostituito da Tommaso Maestrelli. Me lo ricordo, anche se stette per poche partite. Ci salvammo all’ultima giornata. Era malato, faceva fatica. Era un padre di famiglia, comprensiv­o, solo lui poteva tenere insieme personaggi non semplici come Wilson o Chinaglia. Sembrava impossibil­e ma lui ci riusciva». Con gli allenatori andava d’accordo? «Sì, perché mi facevano sempre giocare. Solo una volta Liedholm, in un Roma-Milan, decise di non farmi scendere in campo, non ho mai capito perché. Per motivarlo mi chiamò , durante la settimana, e mi disse , con aria tra il paterno e il complice, “ho deciso di avere un secondo in panchina, uno che mi possa consigliar­e durante la partita e solo tu puoi farlo”. Era un signore, un grandissim­o precursore dal punto di vista tattico, come era anche Vinicio». Com’era la Lazio di quegli anni ? «Sono sincero. Era, dal punto di vista tec-

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