Corriere dello Sport Stadio (Firenze)

L’esperienza a New York a fine carriera fece da scivolo al nuovo mestiere di tecnico

- Fu.za.

Donadoni e l’America. 1996, ciao Milan. Finisce qua, chi se ne va che male fa. Invece no, ma lo scoprirà solo più tardi. Donadoni Roberto di Cisano Bergamasco chiude la sua storia in rossonero, prende l’aereo e vola a New York. Dice: scelta di vita. Ha 33 anni, è reduce da anni di gloria e scorriband­e sulla fascia tra Milan di Sacchi e nazionale.

L’AMERICA. Gioca al Giants Stadium, nel New Jersey: ventimila spettatori di media. (Ri)nasce il campionato Usa; è il bonus che gli americani pagano per aver avuto diritto ad organizzar­e il Mondiale due anni prima. La Major League di allora vive una fase di passaggio. Non è più il Circo Barnum degli anni 70 con Pelè, Chinaglia e Best; non è ancora il campionato - comunque rispettabi­le - di oggi. Arrivano le star, ma sono quasi tutte a fine corsa: Valderrama a Tampa Bay, il messicano Jorge Campos a Los Angeles. Il soccer è prodotto da vendere. In quegli anni altri italiani prendono la via d’America: Walter Zenga fa il giocatore/allenatore nei New Englan Revolution, Nanu Galderisi timbra gol per Boston e Tampa Boy. E’ un campionato nuovo, si fa di tutto per renderlo appetibile. Regole stravolte. Non ci credete? Il cronometro andava all’indietro, dal 90° al minuto zero. Il fuorigioco veniva interpreta­to, nel senso che se l’azione era bella si lasciava correre, massì, chissenefr­ega delle proteste. Le rimesse laterali si battevano (anche) con i piedi. E visto che la gente voleva vedere i gol, le porte vennero allargate. Nessuna partita poteva finire con un pareggio, non sia mai. Se succedeva (capita, ogni tanto), c’era questa cosa che gli americani chiamarono «shootout»: uno contro uno tra attaccante e portiere, si partiva dalla distanza di 35 yard (una trentina di metri) e si doveva andare al tiro in cinque secondi. La fine della partita era sancita dall’ululato della sirena, che pareva una prova antincendi­o. ANDATA E RITORNO. All’epoca il presidente dei MetroStars è un tedesco scappato da bambino con la famiglia in America: si chiama John Kluge, ha fatto i soldi, tanti ne ha fatti, è tra i 100 uomini più ricchi d’America. Gli allenatori sono due nomi noti: Eddie Firmani, il sudafrican­o soprannomi­nato «Tacchino Freddo» che alla fine degli anni ’50 giocò (bene) nell’Inter e il quarantenn­e Carlos Queiroz, portoghese, oggi ct dell’Iran, ieri del Portogallo, nel suo curriculum l’esperienza formativa da assistente di Ferguson a Manchester. La squadra è buona, ma non ottima. C’è un altro italiano, l’ex Juve e Bari Nicola Caricola, ci sono due nazionale a stelle e strisce, l’italoameri­cano Tony Meola, un Rocky Balboa con i guantoni, e Tab Ramos. Il capocannon­iere è un venezuelan­o dalle origini italiane, Giovanni Savarese, che da noi qualche anno più tardi bazzicherà in provincia, tra Viterbo e Sassari. Terzi nella Estearn Conference, l’anno successivo Donadoni verrà allenato dal ct del Brasile che ha battuto l’Italia al Mondiale del ’94 a Pasadena, quello in cui Baggio mira alle nuvole. L’America significa qualità della vita alta, serate a Broadway, passeggiat­e a Central Park, anche seisette ore d’aereo per le trasferte, code chilometri­che per gli autografi. In campo fa il Donadoni: si piazza in mezzo e detta i tempi, imbuca l’assist, cerca geometrie nel caos. Dirà: «Mi sentivo come l’autista del pullman che dice ai passeggeri come devono sedersi».Nel gennaio del ’97 - dopo sedici mesi americani - torna all’ovile, il Milan ha bisogno di lui, galliani gli telefona, «Torna, ci servi», Capello cerca il totem per ridare senso ad una squadra a fine ciclo. Donadoni torna per «fare spogliatoi­o», però gioca, chiude con dignità, ultima tranche di una carriera luminosa e ricca di trofei, prima della pensione dorata negli Emirati. Ma è in America che Donadoni comincia a ragionare da allenatore, inizia a pensare «noi» e non «io». Vent’anni dopo, il cerchio si chiude. E’ un nordameric­ano, l’italocanad­ese Saputo a offrirgli la possibilit­à di scoprire l’America per la seconda volta (e stavolta in Italia).

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