Colpi di genio, noia, addii: la fuga infinita di Zlatan
Da Malmö a Parigi inventando un nuovo calcio: ha fatto la fortuna di grandi squadre senza mai innamorarsene
Inquieto lui, inquieto il suo calcio fatto di punture da scorpione, corse da bufalo, tempismo da ragno, levità da gabbiano. Purissima libertà di riscriverne le regole. Un pilastro alto quasi due metri che avvolge il pallone in spire delicate. E adesso che cosa può succedere? si chiedevano i difensori dell’Italia all’Europeo del 2004 osservando quel pallone innocuo come zucchero filato calare incontrollabile verso Zlatan Ibrahimovic, non proprio all’esordio ma quasi. Un secondo dopo fu tacco ruotato. Sembrava la pala di un mulino, palla in rete, azzurri eliminati.
Di Ibrahimovic è praticamente inutile ridescrivere la carriera spaziale, i colpi prelevati dalle arti marziali che ha praticato da giovane e innestati nel tessuto del calcio, i nove scudetti raccolti in giro per l’Europa, i 322 gol nei club, i 51 in Nazionale. L’imbarazzo iniziale dei compagni di tutte le squadre in cui ha giocato, e sono state molte e scelte, perché a a un certo punto tutti capivano che giocare era pressoché inutile. Bastava tirare addosso a Ibra: lui avrebbe smorzato qualsiasi idea balzana venuta in testa alla palla e avrebbe giustiziato, in molti casi, la porta avversaria. Altrimenti avrebbe impostato l’azione come gli dettava l’umore del momento, con un assist magari, oppure con un placido ricominciare. ATTACCO E DIFESA. L’ultima scelta, questa. Ricominciare gli è sempre venuto molto più istintivo nella strategia professionale e di vita piuttosto che sul campo. Nell’anima del suo
Pep Guardiola e Zlatan: scintille ai tempi del Barcellona gioco risiedeva l’attacco, nella sua anima la continua difesa, il ripensamento. Mal di pancia, li chiamarono a un certo punto. E’ sempre stato soprattutto mal di pensiero, ansia di non sentirsi mai a casa. Sempre affetto da disarman- qualunque, va all’Inter, l’altra faccia del Derby d’Italia. STANCHEZZA. Gli scudetti gli piombano addosso, i soldi e i successi personali anche. Non la Champions League. Quella verrà dopo. Ibra già non c’è più. E’ andato al Barcellona. Perché non avrebbe dovuto, poi? Per averlo hanno anche ceduto all’Inter un Eto’o tutt’altro che spento. E’ il 2009 e Ibra garantisce di essere finalmente felice. Dura un anno, forse meno. Lui continua ad attirare palloni come un gorgo e il gioco di Guardiola non ammette centri di gravità, piuttosto è una vibrazione diffusa.
Ibra sa scegliere e sceglie il Milan. I cabarettisti vanno in estasi e annotano che Zlatan è davvero cambiato perché alla presentazione della squadra, davanti al pubblico gongolante, non ha dichiarato di voler andare via. Dategli tempo: lo farà dopo due stagioni, deluso dall’aver conquistato un solo scudetto, preoccupato dal declino che gli sembra di annusare tra le bacheche stracariche di trofei.
E poi al Psg sono arrivati i ricconi del Qatar e poi Parigi è sempre Parigi. Ibra non è più un ragazzino ma attraversa il campionato francese come un coltello attraversa il tonno, si prende due campionati, una Coppa di Lega, due Supercoppe, segna 88 gol. E scoppia a piangere ricevendo un premio. Dice che gli manca il fratello morto, che a un certo punto la stanchezza soffoca ogni desiderio. Poi rammenta che alla sua collezione di città imperiali manca Roma. Il mondo gli si riaccende intorno, luminoso quanto una sala da ballo, e il suo valzer ricomincia.
A 22 anni dichiarò fedeltà alla Juve Poi vennero Inter, Barça, Milan, Psg E non è ancora finita