Corriere dello Sport

Il tecnico azzurro poca forma e molta sostanza: come lui in tanti aspettano l’occasione giusta

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Piccole lezioni d’autunno made in Sarri. Primo, non farsi mai condiziona­re dalle apparenze. Nel calcio e nella vita. Vecchia storia, di abiti e monaci, di forma e sostanza. Questioni d’etichetta, physique du role, tute e grisaglia. Senza giacca e cravatta accussì so’ venuto, cantava Nino D’Angelo. Maurizio si unisce al coro. E gode. Fedele a se stesso. Secondo, bisogna dare sempre una possibilit­à al talento. Anzi, viene proprio da pensare. A tutti gli altri. Quelli che invece rimangono outsider, lontani dal palcosceni­co che meriterebb­ero, costretti nella periferia del pallone e non solo. Quelli che non avranno il destino (e pure il culo) di poterci provare. Il quarto d’ora di celebrità di Warhol, si sa, non capita a tutti e comunque può volarti via, tra rimpianti e frustrazio­ne. La parità dei punti di partenza rimane un miraggio in questa democrazia, dovrebbe essere il manifesto del new labour. Anche perché il talento sprecato è un peccato mortale, peggio del pane buttato nella pattumiera. Potenziali scienziati che si scoraggian­o senza un’università sotto casa, scrittori talentuosi che non pubblicher­anno mai, giovani calciatori interrotti per sempre da un infortunio o da una casualità. Sarri invece per ora ce la fa eccome. Il gusto della scommessa e la libertà del paradosso. Fino al 20 settembre sembrava inadeguato, sferzato dalle parole di Diego e dal pregiudizi­o. Un provincial­e senza grandi referenze, disabituat­o alla pressione, dicevano. Ma nessuno sapeva. Mancavano le prove. Pare sia Varenne, non l’ennesimo ronzino. Fumatore accanito, rivale dei divieti e della logica, ha svegliato il talento di Higuain come non era mai riuscito a Benitez e riesce a flirtare con i napoletani puntando su semplicità e coraggio, basso profilo e allegria. Sa sorridere e sembra preferire nettamente l’autorevole­zza all’autorità. Come Carlo Ancelotti e Guus Hiddink. Dall’altra parte del campo Josè Mourinho nuota tra i problemi alla sua maniera. Con ironia, da strafigo anche nella caduta, senza compromess­i e mollezze. Trecento chilometri più a nord intanto succede altro. Il funerale laico di Howard Kendall mi colpisce. E’ una storia di nicchia, molto anni Ottanta. La Liverpool rossa contro quella blu, quella del suo Everton. Con due scudetti, una coppa delle coppe e la squalifica post-Heysel che ridusse di brutto fama e gloria di quella squadra, confinando al di là della Manica le gesta eroiche di Neville Southall, il portiere grassottel­lo arrivato dai dilettanti del Bury, i polmoni superdotat­i di Peter Reid, le corse inesorabil­i di Kevin Sheedy e il talento tondo, risolto, di Andy Grey con relativa, contestati­ssima cessione all’Aston Villa, estate 1985, per far posto a Gary Lineker. La cattedrale per un pomeriggio diventa pub. Ci sono le sciarpe blu e i ricordi. Le maglie di lana, i colori sgargianti, il “Match of the Day”, la sera in TV (Bbc, of course). Davanti alla sua casa, nella contea di Durham, il castello dove abbiamo dormito per strada in una notte di interrail vent’anni fa scendendo di corsa da un treno, senza un preciso motivo. Faceva molto freddo e c’era un bel silenzio. Come oggi.

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