LA STOPPATA DI TRUMP
Sul caso Cina-NBA interviene il presidente degli Usa. E critica due coach «Kerr? Un bambino spaventato che non voleva rispondere alle domande. E Popovich è come lui»
Niente inni, le tradizionali conferenze stampa cancellate, compresa quella del commissioner Adam Silver, come tutte le manifestazioni di contorno. E all'ingresso della Mercedes Benz Arena agli spettatori, 15.992, è stata consegnata (imposta?) la bandierina cinese col suggerimento di sventolarla.
Così ieri a Shanghai si è giocata, già un successo, Lakers-Nets (111-114, il bis domani a Shenzhen), ma con le “regole” del regime dopo l'inizio delle ostilità Cina-NBA in seguito al tweet pro-Hong Kong di Daryl Morey, gm di Houston.
Mentre a Shanghai venivano tolti banner, manifesti, e ogni riferimento alla partita, da Washington DC partiva una lettera, bipartisan, firmata da un gruppo di congressisti Democratici e Repubblicani: destinatario, il commissioner NBA Silver, con la richiesta di «mostrare coraggio e integrità per resistere al governo cinese». Sempre a Capitol City, proteste durante l'incontro di mercoledì tra i Wizards e i cinesi del Guangzhou: urla e cartelli “Free Hong Kong”, “Free Tibet” e “NBA vergogna”.
L'ALTRA GUERRA. Tirato in ballo senza essere nominato da Gregg Popovich, ricordando anche le polemiche sulle visite rifiutate alla White House dopo gli anelli vinti da Golden State, è intervenuto il presidente Donald Trump: prima affermando che «i dirigenti dovranno lavorare sulla questione» per poi, come al solito, andare fuori dai binari della diplomazia.
Così, dopo che Steve Kerr, il coach dei Warriors, si era rifiutato di dare la propria opinione sulla guerra NBA-Cina l'ha definito «un bambino piccolo, tanto spaventato da non rispondere alla domanda. Stava tremando, diceva solo “Oh non so, non so...”».
Infine il presidente degli Stati Uniti se l’è presa con l'allenatore di San Antonio. «Ho guardato anche Popovich - ha aggiunto -, e ho visto un po’ la stessa cosa, anche se non sembrava spaventato. Parlano male degli Stati Uniti, ma quando si tratta della Cina non dicono niente. Pensavo fosse piuttosto triste, ma sarà molto interessante».
Quando Stephen Curry, forse la voce più contro Trump della NBA, è stato informato dei commenti del presidente, non ha fatto una piega. «Benvenuto nel club, Kerr - ha detto col suo solito sorriso -: credo che tra la lega a la Cina, per la nostra presenza nel Paese costruendo un business, si tratti di una situazione particolare».
COMBATTEVA I BAGNI. In questa bagarre politica non è stato dimenticato che nel 2017 la NBA aveva tolto l'All-Star Game a Charlotte (riassegnato poi per l'edizione 2019) in risposta a una legge del North Carolina che consentiva l'uso dei bagni negli edifici governativi in base al genere riportato nel certificato di nascita, piuttosto che al sesso con il quale ci si identificava. Era considerata discriminatoria nei confronti della comunità LGBTQ. «Vedo ipocrisia - l'accusa dell'ex Governatore Pat McCrory -: la NBA con la Cina non ha usato lo stesso standard applicato col North Carolina». Perché? Semplice: Perché Charlotte e dintorni non valgono gli oltre 4 miliardi di dollari degli asiatici.