Perché le bandiere non sventolano più dietro la scrivania
Bandiere&Scrivanie. Un accostamento difficile, almeno a guardare le recenti travagliate vicende della coppia Paolo Maldini-Zvonimir Boban. I concitati giorni del Milan ci offrono l’opportunità di analizzare il rapporto tra una vita da calciatore a sventolare sul campo e la mancanza di vento in un ufficio.
Semper fidelis. Sottotitolo: però il mondo è cambiato. I tifosi e non solo amano il campione che ha vestito una sola maglia o quasi. Li vorremmo ancora lì. E’ romantico, è intrigante, ma non è un transito semplice. Il calcio moderno è complicato, pensare di inventarsi dirigenti è più difficile che diventare allenatori per cui, secondo il noto assioma, ti riesce meglio se hai fatto il mediano. I club di calcio sono aziende complesse. Prendiamo il Milan. Il proprietario è un fondo d’investimento che deve rendere conto agli investitori prima che ai tifosi. L’Inter è di Suning, un colosso cinese di cui il club nerazzurro è uno dei tanti asset. Quarant’anni fa il Milan apparteneva a Felice Colombo, imprenditore brianzolo che aveva fatto i danè con le materie plastiche. Ivanoe Fraizzoli, proprietario dell’Inter, era un industriale milanese le cui aziende confezionavano divise. Ora i padroni parlano un’altra lingua e non si tratta solo di idioma, ma di bilanci, interessi, strategie.
Dal campo alla scrivania. Sottotitolo: un dirigente, soprattutto se era stato una bandiera, lo potevi inventare, ora no. Boniperti, Mazzola, Rivera, Riva, più in là Antognoni. L’organigramma era meno articolato, il “core business” si chiamava “attività principale dell’azienda”, ed era il calcio, non tutto il resto. L’apprendistato era minimo. Non è più così. Non si parlava di brand ambassaodr, di chief operation officer, di digital director, di sponsor, diritti tv, procuratori, agenti, internet, social. Un grande calciatore non diventa automaticamente un grande dirigente. Auguriamo ogni bene e successo a Paolo Maldini, per noi è sempre “Paolino” come lo chiamava suo padre Cesare, ma lo slogan «il Milan ai milanisti», applicato anche ad altre società, non ha senso. Ci vogliono le persone adatte. E solo chi ha navigato per anni nel mare procelloso del calcio mondiale può avere la preparazione giusta.
A che serve una bandiera. Il caso più clamoroso dei drammatici rapporti bandiere&scrivanie è Francesco Totti. Il capitano della Roma ha stazionato per due anni nei quadri societari, poi, a metà giugno, se n’è andato e da allora è in attesa di impiego. Totti voleva contare. «Mi tenevano fuori da tutto» l’accusa. Quarant’anni fa sarebbe stato dentro, non c’era la concorrenza attuale. Magari Totti è bravissimo, auguriamo pure a lui di dimostrarlo presto, ma, per dire, Beppe Marotta e il suo allievo-nemico Fabio Paratici hanno cominciato dal basso. Per una bandiera, se è un fuoriclasse di più, è arduo adattarsi a una vita da comprimario, vuole subito scegliere l’allenatore. Ma i presidenti moderni sono decisionisti e poi si fidano dei loro uomini. Bandiera non vuol dire fiducia. Pavel Nedved è amico personale di Agnelli, per questo è il suo consigliere. Se vuoi contare devi essere bravo e non devi brillare di luce propria. La prima senza la seconda non vale. Come dappertutto nelle aziende. Zanetti non è ingombrante. Non sgomita. Quando Del Piero venne messo alla porta da Agnelli molti giornalisti lo tempestarono di domande su un suo futuro bianconero. La conferenza stampa si teneva in un albergo del centro, neanche allo Stadium. Eppure non avevano capito. Finalmente hanno compreso che, per tornare alla Juve Del Piero dovrebbe comprarsela. Totti, almeno, questo l’ha detto subito. «Tornerò con un’altra proprietà». Bandiera ammainata ma lucida.