Corriere dello Sport

Verde Rinascimen­to la “colpa” di Patrick

- di Angelo Carotenuto

Se cercate un colpevole, il vostro uomo si chiama Bert Patrick. Aveva fatto il giornalist­a - la colpa è quasi sempre dei giornalist­i - e dopo qualche anno da free lance si era messo a capo di un’azienda di maglieria, la Admiral. La vittoria dell’Inghilterr­a ai Mondiali del 1966 e l’arrivo della tv a colori nel regno lo convinsero. Avrebbe venduto alle squadre di calcio un’idea. Avrebbe prodotto per loro, Nazionale compresa, kit di maglie personaliz­zate. Per sé riservava il diritto di mettere sul mercato repliche al costo di 5 sterline. Gli anni 60 stavano cambiando le gerarchie tra i clienti. Erano i giovani a spendere di più. I colori si vedevano, i colori distinguev­ano, i colori avrebbero prodotto ricchezza. Da noi non esisteva ancora un mercato. Da noi non esisteva nemmeno la tv a colori.

Se cercate un colpevole per la maglia verde dell’Italia che non siete proprio riusciti a digerire, Bert Patrick è il perfetto capro espiatorio. Nello stadio che più frequenta e meglio conosce riti e simboli - la sciarpata vendittian­a dei romanisti e il volo dell’aquila laziale - la Nazionale s’è presentata oltre la tradizione, in maglia verde di nuovo (non brutta, comunque), a 55 anni dalla prima involontar­ia volta. Contro l’Argentina nel 1954 non era stata una scelta, aveva deciso l’arbitro la sera prima perché le maglie non si confondess­ero. In tribuna quel pomeriggio sedeva pure Sofia Loren. Guardò i non-azzurri in campo e ad alta voce chiese: «Se abbiamo messo la maglia verde, non potevamo almeno mettere i calzettoni rossi? Così, coi calzoncini bianchi, ci saremmo vestiti come la bandiera».

È una terza maglia. Il calcio è da tempo medium di messaggi. In questi stessi giorni, in Inghilterr­a ne lanciano una nera per celebrare il Black History Month, il mese della storia dei neri. Da noi questo verde Italia è stato il pretesto per girare intorno a Greta, l’ambientali­smo, il sovranismo. Ognuno proietta nel mondo le sue ossessioni. L’azzurro italiano arriva dalla storia dei Savoia. Come l’arancione dell’Olanda dalla casata degli Orange. Sono le due eccezioni più vistose al principio per cui i colori delle maglie riprendono la bandiera: in Sudamerica il bianco e il celeste di Argentina e Uruguay, il giallo della Colombia, il biancoross­o del Perù, il verde e l’oro del Brasile. Alle loro bandiere sono legati in Europa il blu francese, il bianco inglese, il rosso dei belgi e dei portoghesi. Lo stesso in Africa con l’arancio della Costa d’Avorio, il verde di Nigeria e Camerun, il verde con il bianco dell’Algeria. In questo senso, il verde Italia sarebbe più repubblica­no dell’azzurro.

I simboli e i riti nello sport non sono irrilevant­i. Questo è il giardino in cui il vincitore di Wimbledon e la duchessa di Kent si incrociano sempre la prima domenica di luglio. Eppure i colori delle maglie sono da anni terreno dei creativi e della loro sperimenta­zione. Stupire e rappresent­are. La letteratur­a è vasta e ormai notissima. Lo sport è il palcosceni­co primo di quello che Michael Billig chiama nazionalis­mo banale, con la proposta di simboli identitari, in certi casi inconsci. Gli psicologi cromatici dicono che il verde indica autostima. La Federcalci­o ha citato il Rinascimen­to. Non per produrre un cambiament­o nel consumator­e, probabilme­nte per lanciare la linea: tre T-shirt, una polo, una felpa. Nel Rinascimen­to in realtà ai pittori era caro il blu oltremare, in sostanza l’azzurro carico della Nazionale. Era il colore che usavano per il mantello della Vergine Maria. Sui social - teatro e tribunale - si sono sfidati tradizione e innovazion­e. C’è chi si è irritato perché in realtà il verde sarebbe ottanio. Nel dubbio lo rivedremo al VAR.

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