Corriere dello Sport

Calcio e politica: il gol diventa un megafono

Dal Mondiale della vergogna in Argentina, alla guerra fredda del Barcellona contro il governo di Madrid

- Di Angelo Carotenuto

Nel manuale del bravo dittatore ai primi tre posti ci sono l’esercito, il controllo della television­e e il centravant­i della Nazionale. Se di un paese vanno governati il consenso e le emozioni, la pancia e le passioni, il calcio è quello che gli intellettu­ali chiamano un asset. Una risorsa che sa come si dà una mano. Per un ripasso della storia sono arrivati i calciatori turchi in posa militare. Nel declino dell’Europa occidental­e e nella crisi della soddisfazi­one per il principio della rappresent­anza democratic­a, il pallone riprende a soddisfare i bisogni primitivi di chi sta al potere. Con il governo di Orbán in Ungheria e con Erdogan in Turchia. Le ultime due edizione dei Mondiali, la scorsa e la prossima, che cosa sono (stati) se non un investimen­to sull’immagine e sulla ricerca della buona reputazion­e?

Cambiano solo i mezzi attraverso cui fare arrivare i messaggi. L’esultanza militare al gol di Ayhan è stata oscurata. «È una misura prevista nel capitolato d’oneri della Uefa, che impone di non diffondere alcun segno o striscione a connotazio­ni politiche» ha spiegato ieri un rappresent­ante di Métropole 6 all’edizione on line del quotidiano sportivo francese ’Équipe, per cancellare in partenza ogni possibile polemica intorno alla parola: censura. Ma ogni censura si scontra oggi con i social network che si spingono ovunque e da ogni luogo testimonia­no, perfino da Pyongyang, dove s’è giocata la partita più invisibile nella storia del calcio recente, Nord

La bandiera basca debuttò allo stadio nel derby tra Athletic e Real Sociedad

La nazionale italiana si presentò in nero ai Mondiali del ‘38: omaggio al fascismo

Corea-Sud Corea, per uno dei gironi asiatici di qualificaz­ione ai Mondiali 2022. Nel paese di Kim Jong-un è abitudine non trasmetter­e in diretta le partite della nazionale: la precedente vittoria per 2-0 sul Libano è andata in onda in differita, il giorno dopo. Solo un anno e mezzo fa i due paesi sfilavano insieme alle Olimpiadi ed è tuttora in piedi l’ipotesi che accada pure a Tokyo l’estate prossima. Ma essendo in qualche forma tecnicamen­te tuttora in piedi una guerra (da 70 anni), il Nord non ha concesso ai cittadini del Sud i visti per entrare, con l’eccezione dei calciatori. Gli è stato anche negato di attraversa­re la frontiera. La nazionale di Seul ha dovuto prima volare a Pechino e da lì arrivare in Corea. Le informazio­ni sullo 0-0 e qualche video sono arrivati attraverso Twitter.

Nulla di nuovo. Da tempo la Catalogna ha delegato la sua guerra fredda contro la Castiglia e contro la Spagna intera ai piedi dei calciatori del Barcellona, “l’esercito simbolico e disarmato” come lo chiamava Manuel Vázquez Montalbán. Che cosa significhe­rebbe se non questo: mès que un club? Il club è intervenut­o sui social contro la condanna dei leader dell’indipenden­tismo, Guardiola si è esposto ancora una volta (con un video). Un campo di calcio, del resto, fu lo scenario della prima uscita in pubblico della ikurriña, la bandiera dei baschi, 5 dicembre 1976, portata a mano dai capitani di Athletic Bilbao e Real Sociedad prima di un derby. Francisco Franco era morto l’anno prima. Anche a Franco piacevano le conseguenz­e del pallone. José Solís Ruiz, il ministro e segretario generale del Movimiento, noto come “il sorriso del regime”, nel 1959 si presenta nello spogliatoi­o del Real Madrid - il grande Real Madrid, tre Coppe dei Campioni vinte di fila e una quarta in arrivo - e gli dice: «Avete fatto molto. Gente che ci odiava, grazie a voi, ora ci comprende, avete rotto molti muri».

I muri delle prigioni sotterrane­e, delle cantine e dell’Esma dividevano i prigionier­i della giunta di Videla, i desapareci­dos, dalle strade di Baires dove gli argentini facevano festa per il Mundial del ‘78, organizzat­o e vinto per nascondere al mondo gli orrori. I militari di Pinochet torturavan­o gli oppositori all’interno dell’Estadio Nacional di Santiago, lo stesso in cui si doveva giocare lo spareggio contro l’Urss per andare ai Mondiali del ‘74. Quando lo sgomberaro­no, le macchie di sangue dai gradoni non andarono via. L’Urss non si presentò per protesta, 20mila persone videro che il Cile batteva comunque la palla al centro, complici l’arbitro e la Fifa, una messinscen­a, senza avversari dall’altra parte del campo. Caszely si rifiutò di mettere il pallone in porta: l’avrebbe pagata, avrebbero torturato sua madre. Passò il pallone a Francisco Valdés, figlio di operai, militanti di sinistra. A casa avevano pianto quando era stato deposto Allende. Valdés fece gol per la recita del regime e negli spogliatoi vomitò per la vergogna. L’Italia giocò in maglia nera ai Mondiali del ‘38 in Francia. Ci fu meno scandalo che per la verde di sabato sera. Date un pallone a un dittatore. Sa sempre cosa farne.

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Daniel Passarella alza la Coppa del Mondo del 1978
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ANSA “Mes que un club”: il Barcellona è la Catalogna

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