La lezione di Sheva
C’è un bel pezzo di Milan e di calcio italiano che brilla sotto il cielo di Kiev dopo la qualificazione, in anticipo di un turno e col primo posto in tasca, dell’Ucraina al prossimo europeo. È un successo che luccica maggiormente grazie al rivale illustre piegato nell’occasione: il Portogallo di sua maestà CR700, staccato di otto lunghezze nella classifica del girone B. Qui si celebra l’impresa dell’Ucraina di Andrji Shevchenko, giovanissimo ct al debutto nel ruolo (subentrato dopo un breve apprendistato iniziato nel 2016) che può schierare uno staff di scuola italianissima: Mauro Tassotti è il suo apprezzatissimo vice, Andrea Maldera, figlio di Gino, colonna difensiva del mitico Milan di Rocco, è il tattico, entrambi provenienti dalla stessa costola rossonera dove hanno lavorato al fianco di tecnici di prestigio e allenato fior di campioni. Dalle parti di Kiev, la qualificazione all’europeo è un risultato salutato addirittura come “storico” dallo stesso Sheva che può così cancellare una vecchia ferita personale, la sconfitta patita in politica (elezioni del 2012).
Segno ancora una volta della conferma del vecchio adagio milanese: a ciascuno il proprio mestiere. E quello di Sheva nato il 29 settembre (stesso giorno di Silvio Berlusconi) del ’76, comincia e non può che continuare nel calcio, sia pure con un ruolo diverso, adesso da ct dopo aver seminato gol e prodezze balistiche in giro per l’Europa. Da ragazzo affinò il suo talento un maestro d’eccezione, il leggendario Lobanowski dinanzi alla cui statua portò la sua prima coppa dei Campioni. Il Milan di Berlusconi ne scoprì il valore in una notte al Nou Camp di Barcellona scandita da tre gol rifilati sulla schiena dei catalani. Adriano Galliani concluse l’acquisto siglando il contratto per un valore di 40 miliardi bloccati alla quotazione del dollaro che premiò l’intuito dell’ad rossonero facendogli risparmiare nei mesi successivi alla firma quasi 5 miliardi di vecchie lire italiane. Per i milanisti di ogni generazione fu l’eroe di Manchester, finale di Champions league contro la Juve: suo l’ultimo rigore, suo il sigillo conclusivo a quella sfida interminabile, sua la rincorsa guardando sempre l’arbitro e mai Buffon partito dal lato opposto alla direzione della palla. Il solido rapporto con Mauro Tassotti, la persona deputata da Ancelotti a indorargli la pillola di qualche esclusione e a lenire le ferite della rivalità con Pippo Inzaghi, ha una spiegazione semplice. Di qui la scelta premiata dal successo che segnala un’ultima amara realtà: di quella famosa scuola, oggi a Milanello, non più traccia.