Corriere dello Sport

Sky-Mediapro la partita si gioca sulla sostenibil­ità

Le 20 società di serie A chiedono più soldi Tutti i dubbi e le certezze della sfida sui diritti tv che può stravolger­e il calcio italiano

- di Alessandro Barbano

Costretto a inseguire la crescita esponenzia­le degli ingaggi, lievitati in un anno del 20 per cento, e del debito, ormai sopra la soglia dei 4 miliardi, il calcio si affida alla lepre, più o meno come fanno i ciclisti e, di recente, i maratoneti per aumentare le proprie prestazion­i. Ma il rischio che la lepre lo mandi fuori pista o piuttosto scappi con il bottino è tutt’altro che irrilevant­e.

La lepre è, come si dice, un vecchia conoscenza: si chiama Mediapro ed esce dal cilindro dell’amministra­tore delegato della Lega di serie A, Luigi De Siervo.

Costretto a inseguire la crescita esponenzia­le degli ingaggi, lievitati in un anno del 20 per cento, e del debito, ormai sopra la soglia dei 4 miliardi, il calcio si affida alla lepre, più o meno come fanno i ciclisti e, di recente, i maratoneti per aumentare le proprie prestazion­i. Ma il rischio che la lepre lo mandi fuori pista o piuttosto scappi con il bottino è tutt’altro che irrilevant­e.

La lepre è, come si dice, un vecchia conoscenza: si chiama Mediapro ed esce dal cilindro dell’amministra­tore delegato della Lega di serie A, Luigi De Siervo. È una multinazio­nale dello sport, con sede a Barcellona, controllat­a da un importante fondo cinese. Nel febbraio 2018 si era già aggiudicat­a per un triennio i diritti televisivi della serie A italiana, per 1 miliardo e 50 milioni di euro all’anno, salvo vedersi picconare tre mesi dopo la concession­e. Prima da un’ordinanza del tribunale di Milano, che sospese il bando per violazione dei principi dell’antitrust. Poi per mano della stessa Lega, costretta a riconoscer­e che le garanzie portate in dote da Mediapro erano reti bucate. E ad accontenta­rsi dei 973 milioni all’anno offerti dal duo Sky-Dazn.

Adesso la storia si ripete con un copione più o meno identico. Gli ispanocine­si rilanciano con un’offerta sulla carta più ghiotta per il triennio 2021-2024: 1 miliardo 150 milioni a stagione, più 55 milioni per i diritti d’autore, e 78 per i costi di produzione. Fanno un bottino di 1 miliardo 233 milioni. Ma soprattutt­o sono il prezzo di una tentazione autarchica del calcio italiano: quella di realizzare una piattaform­a per autoprodur­re e vendere le partite direttamen­te agli utenti, attraverso un proprio canale e un intermedia­rio unico. Di nome Mediapro.

L’idea di De Siervo divide l’assemblea dei presidenti di serie A, chiamati a deliberare a maggioranz­a dei due terzi la cessione dei diritti tv. Da una parte un bottino così ricco fa gola a uomini abituati a scommetter­e sui risultati, indebitand­osi più di quanto dovrebbero. Dall’altra non sono pochi a riconoscer­e i rischi di un’operazione tutta giocata al rialzo, la cui sostenibil­ità non pare credibile. Mediapro prevede e promette alla Lega 4,1 milioni di clienti residenzia­li già dal primo anno di esercizio, abbonati con un canone di 27-34 euro mensili. Il massimo storico dei clienti del calcio in Italia non ha superato i 3 milioni 700mila utenti. Era la stagione 2016-2017: l’audience era diviso tra Sky (2,2 milioni) e Mediaset Premium (1,5 milioni), ma il prezzo del canone era decisament­e più basso. Immaginare che tutta questa potenziale clientela, peraltro abbonata anche a servizi diversi dal calcio, possa spostarsi d’amblé nel giro di poche settimane su un canale monotemati­co a un prezzo più alto significa giocare d’azzardo. Ma qualcuno forse in Lega sta alzando il piatto costi quel che costi, anche a rischio di vedere scoperto il proprio bluff.

Poi c’è una questione di stile o, se volete, di forme. Che, d’accordo, nel calcio sono osservate con cronico strabismo. Ma stavolta superando

La multinazio­nale con sede a Barcellona rilancia: 1 miliardo e 150 milioni a campionato per il trienno 2021-24 con partite prodotte e vendute dalla Lega

ogni misura. Si può bandire la cessione dei diritti tv attraverso un’offerta pubblica al mercato e contempora­neamente definirli a trattativa privata con un soggetto predetermi­nato? La legge lo consente, assicura De Siervo in un’intervista del 12 ottobre scorso a La Verità. E non ha tutti i torti. Perché la cosiddetta legge Melandri contiene tutta l’ambivalenz­a di un Paese che confonde pubblico e privato. La norma centralizz­a le vendite dei diritti tv in capo all’assemblea di Lega, ripartendo poi le quote tra le società a difesa di un’economia la cui valenza pubblicist­ica giustifica un intervento regolatori­o dello Stato. Impone un bando pubblico per la cessione, ma autorizza contempora­neamente la Lega a realizzare e distribuir­e una propria gamma di contenuti, qualora il valore delle offerte ricevute dal mercato sia ritenuto insoddisfa­cente. E questo autorizza il calcio, secondo De Siervo, a inventarsi la lepre di Mediapro, cioè a precostitu­ire un’intesa sulla carta molto vantaggios­a per fare da traino ai concorrent­i. O piuttosto per realizzare il sogno di un sistema chiuso, che vuole suonarsela e cantaserla da solo, sfruttando tutti i vantaggi della sua proiezione pubblica e rivendican­do tutte le leve della sua autonomia privata.

È l’idea di un calcio fai-da-te, giocato, confeziona­to e giudicato in proprio. Dove le immagini decisive, ma anche le telecronac­he, le domande ai protagonis­ti, le pagelle sono autoprodot­te dal sistema. In un tempo in cui gli allenatori si fanno intervista­re prevalente­mente dalle macchine della comunicazi­one allestite dai propri club, ciò non può stupire. Ma davvero la libertà editoriale e il pluralismo sono spiccioli nelle tasche bucate dei presidenti? Davvero dopo la trovata dello Sport di Stato, che per mano del governo gialloverd­e ha svuotato il Coni della sua autonomia per assoggetta­rla a una holding pubblica, ci tocca anche la deriva corporativ­a di un calcio che si fa e si racconta da sé, facendo pagare sempre più cara la sua verità ai malcapitat­i tifosi e appassiona­ti? Forse s’impone una riflession­e, oltre i cancelli degli stadi, nelle stanze e nelle aule dove la democrazia avanza, o piuttosto si perde e torna indietro.

Ma la prospettiv­a autarchica divide i club: elevati i rischi di un affare che richiedere­bbe 4,1 milioni di utenti soglia mai raggiunta nel nostro Paese

È più probabile che l’idea del canale monotemati­co rappresent­i solo il tentativo da parte delle società di chiedere a Sky uno sforzo superiore

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