«Ora basta con i ricatti dei capi ultrà»
Intervista a Giannini, capo Antiterrorismo: Tutelare il calcio dalle infiltrazioni
«Last Banner a Torino ha posto sotto la lente d’ingrandimento una serie di attività inquietanti Accanto alle Forze dell’Ordine anche i club devono fare la loro parte. E comincia ad accadere»
ROMA - Da “Last Banner”, l’operazione della Digos di Torino che ha sgominato le attività criminali dei gruppi ultrà della Juventus, alle indagini delle Questure di Milano e Napoli che hanno portato a individuare il presunto responsabile della morte di Davide Belardinelli prima di Inter-Napoli del 26 dicembre 2018. E poi le venti denunce scattate dalla Digos di Roma per i saluti fascisti nell’ultimo match di Europa League tra Lazio e Rennes. L’episodio Juan Jesus e il daspo a vita spiccato dalla Roma verso il tifoso ospite sgradito. Sul tavolo del capo dell’intelligence al Viminale, il prefetto Lamberto Giannini, c’è anche il calcio. Da appassionato (ma il tempo praticamente non c’è) vorrebbe solo vederlo, da direttore centrale della Polizia di prevenzione deve trattarlo come un fenomeno con le sue criticità da “leggere” prima degli altri e da affrontare per risolverle. Lamberto Giannini ha una grande storia da investigatore alle spalle, costruita in gran parte al vertice della Digos di Roma: è un prefetto operativo, poca giacca, molta camicia e maniche tirate su. Le riflessioni scorrono, l’espressione resta imperturbabile, l’analisi è lucida, puntuale. Conosce le curve, attorno a lui c’è una squadra qualificata di funzionari e investigatori. In testa ha una sola idea: «Il calcio deve essere una festa e va protetto. Con un lavoro di squadra»
Last Banner è la prima grande operazione che colpisce e sradica in profondità certe frange del mondo ultrà, nella fattispecie riferite alla Juventus. Quali punti nevralgici è andata a toccare per entrare così in profondità dentro certi meccanismi criminali e patogeni del tifo?
«L’indagine denominata “Last banner” ha consentito di porre sotto una lente di ingrandimento alcune dinamiche della tifoseria organizzata della Juventus e di acquisire elementi che hanno permesso di leggere alcune condotte nell’ottica di una volontà ricattatoria nei confronti del club. Riteniamo che le indagini abbiano dimostrato e documentato vere e proprie condotte estorsive, progettate e messe in atto dai leader dei più importanti sodalizi ultrà, alcuni dei quali riconducibili a contesti criminali, allo scopo di ottenere benefit economici quali biglietti ed abbonamenti, inviti alle feste societarie, materiali sportivi e persino consumazioni nei punti di ristoro allo stadio. C’è poi da sottolineare che questo, spesso, avveniva a discapito della tifoseria sana, talvolta costretta a non tifare o a cambiare il proprio posto allo stadio solo per non opporsi a quanto deciso dai capi ultrà».
Che tipo di messaggio contiene una operazione di questo genere e quali prospettive è corretto affidarle?
«Il messaggio che a mio avviso è corretto leggere da un’operazione come questa, in primis, è la necessità di tutelare il mondo del calcio da queste infiltrazioni con uno sforzo comune: le società debbono denunciare le intimidazioni ed i comportamenti violenti e illegali. Le Forze dell’Ordine devono profondere le migliori energie per stroncare queste attività criminali. Per l’operazione portata a termine a Torino, la sintesi di tutto questo, sono state utilizzate tecniche investigative affinate nel corso degli anni per consentire una migliore penetrazione dei contesti ultrà maggiormente propensi a comportamenti illegali e la collaborazione fra società sportiva ed inquirenti ha fatto emergere una capillare strategia criminale in grado di condizionare, come detto, anche la parte sana del tifo».
Lei ha una vasta esperienza investigativa pregressa, formata in anni di lavoro alla Digos della Questura di Roma. «Sì, nella mia esperienza investigativa ho già avuto modo di verificare gli appetiti di contesti criminosi verso il ricco indotto economico del mondo calcio; mi riferisco alle indagini condotte sul famoso tentativo di scalata alla Lazio nelle quali emerse l’attività di capi ultrà e l’interesse di esponenti della criminalità organizzata. Anche in quel caso le indagini furono avviate a seguito delle denunce presentate dalla società sportiva».
Un altro aspetto, la politicizzazione delle curve: che tipo di geografia emerge dall’attività del suo ufficio?
«Nel mondo delle tifoserie organizzate italiane, c’è una parte significativa che tende ad assimilare e rielaborare i modelli organizzativi, comportamentali e comunicativi propri dell’estremismo politico e questo dà vita ad una contraddizione tra la volontà di riaffermare l’autonomia della curva - “l’ultrà è innanzitutto un ultrà” - e una altrettanto evidente attrazione verso la dimensione della politica. Esistono alcune frange ultrà attestate su posizioni ideologiche più oltranziste, nelle cui fila risultano presenti militanti di movimenti politici di estrema sinistra e di estrema destra, che svolgono negli stadi anche attività di proselitismo politico. Questo determina, soprattutto sulle tematiche sociali più calde, una pericolosa saldatura fra stadio e piazza in una comune “pratica dell’opposizione violenta”, diretta primariamente contro il “sistema istituzionale” nel suo insieme».
L’internazionalizzazione dei rapporti tra ultrà, aspetto nodo cruciale. Come ha amplificato le criticità dentro le curve? «L’internazionalizzazione del fenomeno ultrà è un aspetto, sviluppatosi sempre più negli ultimi anni, che rende ancora più complicata l’attività di contrasto. Da diversi anni ormai si è riscontrata la frequente presenza di tifosi stranieri in occasione di gare di cartello italiane e il coinvolgimento degli stessi in incidenti o turbative dell’ordine pubblico. I contatti che le tifoserie autoctone hanno sviluppato con quelle estere, favoriti anche dalle potenzialità offerte da internet e talvolta ispirati da una comune militanza “politica”, offrono anche occasione per rilanciare vicende che originano da un contesto nazionale offrendole un’eco ben più vasta. Non sono rari infatti striscioni e drappi che le tifoserie europee espongono per scambiarsi messaggi di solidarietà o contestare decisioni adottate dalle autorità».
Cosa genera questo tipo di amplificazione dei rapporti ultrà oltre i confini nazionali?
«E’ anche grazie a questi rapporti che i sodalizi ultrà italiani hanno mutuato modi operandi tipici delle tifoserie europee, primo fra tutti quello di “programmare” scontri in luoghi lontani dagli stadi anche e soprattutto per eludere i meticolosi controlli posti in atto dai dispostivi di ordine pubblico nei pressi dei plessi sportivi. Si tratta di condotte molto insidiose, come testimonia l’operazione portata a termine dalle Digos di Milano e Napoli che ha consentito di assicurare alla giustizia il presunto responsabile della morte di Daniele Belardinelli, leader della tifoseria organizzata del Varese gemellata con quella dell’Inter, in esito agli scontri occorsi nel pre partita dell’incontro di calcio Inter-Napoli dello scorso campionato. Voglio poi aggiungere che fortunatamente le acquisizioni informative delle Digos consentono nella maggior parte dei casi di prevenire le derive violente o comunque di limitarne l’impatto sull’Ordine Pubblico».
Il razzismo è un tema molto caldo negli stadi d’Italia di questi tempi. Ma Last Banner ha svelato, ad esempio, che certe espressioni, certi comportamenti ascrivibili al razzismo siano riconducibili più ad una strumentalizzazione di certi gruppi ultrà per colpire le società ribelli e tenerle sotto scacco.
«Non farei distinzioni fra manifestazioni razziste fini a se stesse o strumentali ad una ulteriore progettualità criminosa, in quanto si tratta di comportamenti egualmente odiosi e da condannare, espressione di una sottocultura che ha una dimensione internazionale e che, almeno in Italia, interessa solo una porzione residuale del tifo. Sul tema, soprattutto negli ultimi anni, si è affermata una grande sensibilità da parte di tutti gli attori dello spettacolo calcistico; mi riferisco, in particolare, alle forti iniziative recentemente adottate da numerose società sportive ed ai significativi risultati conseguiti dalle Forze dell’Ordine nell’attività di contrasto».
Alla luce di questa chiacchierata e delle problematiche sul tifo ultrà che abbiamo analizzato, dal suo osservatorio privilegiato quale scenario si può auspicare?
«E’ necessario modificare l’approccio culturale allo sport per restituire al calcio una dimensione di normalità. Non penso a stadi senza ultrà, ma ad ultrà che frequentino gli stadi esprimendo tutta la loro colorata e rumorosa passione senza che questa degeneri nell’illegalità. Penso a stadi dove le famiglie possano divertirsi senza preoccupazioni. Tale processo deve investire le società e gli stessi protagonisti dell’evento calcistico, talvolta, seppur involontariamente, oggetto di “strumentalizzazioni” da parte dell’ala più violenta del tifo organizzato. L’operazione portata a termine a Torino rappresenta in tal senso un modello virtuoso di collaborazione indispensabile per emarginare soggetti che non dovrebbero avere cittadinanza nel mondo del calcio».
«Penso a stadi con la colorita passione degli ultrà e famiglie serene. Ma alcuni soggetti non possono avere cittadinanza dentro gli impianti»
«Il razzismo, reale o strumentale che sia, esprime sottocultura e va condannato Da noi non predomina e le società stanno reagendo con forza»
«Certe strategie criminali finiscono per condizionare la parte sana del tifo L’investigazione a Torino ha penetrato il tessuto ultrà»
«Gli scontri lontano dagli stadi? Strategia mutuata dall’estero Le indagini di Milano e Napoli per la morte di Daniele Belardinelli ribadiscono l’insidia»